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Vi racconto ...: QUEI GIORNI. Difficilmente li dimenticherò quei giorni

Redazione
A volte rivedo come in un film certi volti, espressioni e accenti, luoghi e fatti, come al rallentatore, una moviola a ritmi cangianti. Si era nell'aprile del Settanta a Trento.
Tutto cominciò all'uscita da scuola, l'I.T.I.S. Buonarroti, allora dietro la stazione centrale di Trento, vicino al Lungadige, sul corso Michelangelo Buonarroti, poco sotto il monumento a Cesare Battisti. Avevamo avuto un Collegio dei docenti per ragioni didattiche e mi ero fatto elegante: abito grigio fumo e maglione a collo alto bianco. All'imbrunire, salutati i colleghi, mi avviai per la solita strada, ma dopo piazza Dante cambiai itinerario. Scelsi di passare da piazza Venezia, per poi arrivare a Piazza Fiera attraverso largo Porta Nuova, e quindi prendere via S. Bernardino, attraverso un percorso alberato, forse a causa di quella prima arietta primaverile che scioglieva del tutto le ultime nevi e lasciava gli alberi leggeri, liberi di rifiorire, così come incuriosiva gli animi. Avvicinandomi alla piazza dalla parte del Palazzo di giustizia, però, l'aria si faceva sempre più acre e pesante. Una enorme, fitta nube lattiginosa mi avvolse e quasi venni meno, al punto da dovermi appoggiare ad un muro per non cadere. Lì mi soccorsero Franco e Francesco (non ricordo o, forse, non ho mai saputo quali fossero i loro cognomi), due ragionieri-sociologi, amici di Ancona, miei vicini di camera alla pensione di via S. Bernardino 8. Mi aiutarono a venir fuori da quella bolgia. I due differivano poco per il nome ma parecchio nel temperamento e nel carattere: rude boy-scout idealista il primo, più esile, ma pratico opportunista il secondo. Man mano che il fumo denso si diradava, vidi quello di cui poi avrebbero parlato i giornali: la piazza elegante della città era in subbuglio. Dei cubetti di porfido erano stati staccati dal manto stradale e dai marciapiedi e giacevano ammucchiati in terra (erano serviti da armi ai dimostranti più scalmanati) e perfino alcune barre metalliche dei sedili erano divelte e sparse qua e là. Quella strana aria non era quindi naturale: era causata dai lacrimogeni della polizia che avevano sciolto di forza (lo seppi dopo) una grande e forse anche violenta manifestazione di gruppi di sinistra (lotta continua ed altri), organizzata per protestare in favore di Marco B., "trattenuto" nel Palazzo di Giustizia. Mi sono sempre chiesto cosa ricorda l'onorevole professore veneto, radicale-socialista-verde, di quei giorni e di quell'evento, o cosa gli hanno riferito. Certo la memoria è individuale e storica: mentre la seconda tende a standardizzarsi, la prima rimane libera, per così dire, ed in preda a forti oscillazioni. Non avevo mai provato l'effetto dei lacrimogeni, specie così massicciamente impiegati. Avevo preso qualche piccola parte al Sessantotto nella mia periferica Università di Catania, tra commissioni di studio per la riforma scolastica e l'ascolto, a volte da solo, della indimenticabile Dina Bertoni-Jovine. Ma si era arrivati al massimo al lancio di uova marce tra fascisti ed estrema sinistra (tutta la sinistra giovanile era allora estrema, anche o specialmente quella cattolica di cui facevo parte).
Marco aveva anche estrazione cattolica, ma con ben altre esperienze alle spalle. Ho saputo solo più tardi della sua amicizia dialettica con il Renato delle Br. Allora, nel Settanta, Marco era un mito. L'ho capito in quei giorni, quando ho trovato il suo poster manufatto nell'appartamento di Daniela, Graziamaria e Salvatore. Erano tutti e tre insegnanti e Salvatore teneva, ricordo, anche dei corsi di Storia delle istituzioni a Sociologia. Era quello, l'Istituto Superiore di Scienze Sociali, il fulcro attorno a cui si ruotava tutti, anch'io.
Il poster di Marco (bello, disegnato da Assunta Toti Buratti, docente all'istituto d'arte) aveva preso a Trento il posto occupato in tante case d'Italia da quello del che Guevara. C'era molta emotività in giro, dai sedici ai trent'anni ed oltre. A casa di Daniela B., Marilena T, e Assunta Toti B. appunto, ci trovammo in diversi, quel giorno: Calogero, che si faceva chiamare Pippo perché si vergognava un po' di quel nome troppo trapanese, di aspetto tra i trenta e i quaranta; Sandro, giovane professore di greco al ginnasio, palermitano, piuttosto borghese ed altrettanto scanzonato quanto politicizzato, oltre che ottimo intenditore di canto e chitarra, nonché parecchio piacente alle ragazze; Giuseppe "Gipo", l'altro palermitano del gruppo, socialista acceso, così come Sandro si dichiarava comunista, ed io. Era un appartamentino come i tanti, a piano terra, affittato agli studenti. Accanto ce n'era uno (l'ho saputo tempo dopo) dove stavano Renato C. e Mara C. Salvatore, l'ospite fisso della casa (vi prendeva i pasti assieme alle ragazze) era in grembiule e corona di cartone in testa, in qualità di re della casa e lavava i piatti, nonostante i suoi editti che dovevano evitargli, ma invano, certe corvées.
Gli elogi a favore di Marco, le imprecazioni contro lo stato oppressivo di polizia ed i sospiri per una società più libera e giusta si mescolavano ed intercalavano alle canzoni corali di folklore regionale ed alle fette di dolce casalingo offerto dalle gentili padrone di casa.
In quei giorni i fermenti erano tanti e sempre vivi. Sociologia rimaneva occupata, dall'inizio dell'anno, ma alcuni corsi ed esami andavano lo stesso. Franco F. teneva i suoi seminari. In uno su Psicanalisi e vita familiare si finiva per parlare quasi sempre del confronto tra paesi capitalisti e paesi socialisti. Francesco A., il direttore, consentiva che si dessero gli esami di Sociologia sul testo di Adorno e sui saggi di antropologia di Altàn. Ma andavano più le assemblee e i dibattiti in facoltà, come fuori, alla Comune S.Chiara, il vecchio Ospedale civico che dava alloggio agli studenti al prezzo simbolico di cinquecento lire al mese, o in pizzeria (la Vecchia Trento e La Botte). Qualche comparsa polemica gli studenti rivoluzionari la facevano anche ai tavoli del Caffè Italia: una minerale in sette, o al night La Mandragola, punto d'incontro della Trento bene. Solo all'ingresso, però, perché pochi avevano le cinquemila per andar dentro (contro le cinquecento della Vecchia Trento, tutto compreso) ed il buttafuori non ammetteva gente in scarponi, pantaloni di velluto ed eskimo verde.
Ed io con gli altri.
Erano diverse migliaia. Molti senza alcuna motivazione politica. Alcuni (pochini per la verità) abbastanza motivati e parecchio organizzati. Sarebbe difficile parlare ora di leadership: l'arcipelago studentesco della Trento 1970 era molto complesso. Quella ideale e carismatica di Marco aveva la sua grande attrattiva: stava ufficialmente a capo di lotta continua, il gruppo più forte, e attraeva i cattolici, ch'erano poi i più attivi nelle forme di lotta palese e legale. Esistevano mescolate diverse forme di autorità ed atteggiamenti largamente diffusi. Uno di questi era dato dall'attesa quasi messianica della rivoluzione. Non si facevano nomi: i veri capi come Marco erano poco in vista, controllati da polizia e carabinieri. Si facevano anche grosse retate da parte delle forze dell'ordine col pretesto della ricerca della droga, che tra i giovani allora era pochissimo o punto diffusa. Le retate si concludevano in genere con intimidazioni o pestaggi, che facevano poi il gioco della propaganda rivoluzionaria giovanile, anche nelle scuole.
Nei cortei pochissimi si coprivano con fazzoletti rossi al collo o sulla bocca, per non farsi riconoscere, caschi sulla testa, e si munivano di bastoni che prendevano nello sgabuzzino al piano terra del palazzo che ospitava il Museo di Scienze e Sociologia.
Oggi potrà sembrare qualcosa di grave e terribile, ma allora, in quei giorni, vedere in uno sgabuzzino delle rudimentali bombe molotov e dei ragazzi che provavano a confezionarle era del tutto naturale e non scandalizzava nessuno, anche se ad onor del vero devo dire che non ne vidi mai usare, così come non vidi mai delle vere e proprie armi. La maggior parte dei dimostranti si limitava a scandire, anche sotto la pioggia battente, slogans che inneggiavano ad una libertà vera, ad un futuro migliore, ad una società più giusta. Rita, una ragazza minuta ed agile come un giunco, in preda a forte commozione si chiedeva, dopo i cortei, quando sarebbe arrivata davvero la rivoluzione, per avere una sua collocazione sociale e affettiva più vera, in una società dove non ci fosse bisogno di sforzarsi a vendere qualcosa a qualcuno per mangiare a mensa. Figurarsi poi come si potevano vendere allora a dei poveri rudi rivoluzionari belletti e profumi vari.
Le due cose che potevano colpire l'immaginazione, per la loro estrema eleganza, erano le minigonne scozzesi della Susanna e le calze operate della Rossana, la cassiera della mensa.
Già, la mensa.
A tavola tutto era più allegro e spensierato. Sul viale Bolognini, vicino al torrente, il Collegio delle Dame di Sion ospitava circa cento studentesse sociologhe ed aveva una sala da pranzo per diverse centinaia di persone, sala che si riempiva e svuotava più volte all'ora dei pasti (450 lire con frutta e bevanda). Ai tavoli si formavano i gruppi: siciliani, marchigiani, toscani, rivoluzionari fiorentini, anarchici genovesi, ragazze di provenienza composita in cerca di affetto o avventure (poca cultura da quelle parti, con le doverose eccezioni). Dopo cena si chiudeva spesso con grandi cori e chitarra: we shall over come, compagni dai campi e dalle officine, vitti 'na crozza, bandiera rossa e così via, fino a scandalizzare il gruppo internazionale delle buone suore padrone di casa che non se ne davano per inteso, anzi erano sempre allegre e gentili con tutti.
In quei giorni gli strani tipi, o sarebbe meglio dire i furbi, abbondavano. Un occhio alla scuola, per la carriera futura, un occhio alla politica, per non restar tagliati fuori dopo la rivoluzione, un occhio alle ragazze, quello più attento naturalmente, perché lo meritavano. Il prototipo era uno come Dodo di Cremona. Riusciva a dar sempre gli esami superandoli, anche se con il minimo garantito, a conquistare e colmare di attenzioni parecchie ragazze, a coltivare il suo hobby preferito (pescare residuati bellici dal Lago di Garda) e portare a spasso gli amici con la sua 124 Fiat di cui andava tanto fiero. Altro bel tipo era l'Adriano, di Catania, sempre ingolfato nel lavoro intellettuale, al seguito di parecchi docenti fra Trento e Padova. Qualche maligno insinuava che il suo star dietro ai "baroni" avesse qualche implicazione sul piano dei rapporti umani, oltre che culturali, qualcosa cioè di fisiologico o anatomofunzionale.
A parte il difficile confronto con il leader Marco, la figura dei docenti, confrontati con la "fauna" studentesca di Sociologia, non sempre ne usciva bene. Franco A. ora Francesco dalle grandi firme, opinionista universale, era allora il capo ma godeva poca stima ed era temuto o disprezzato come rappresentante dell'establishment cultural-politico che faceva capo alla Cattolica di Milano. Era difficile vederlo, ma facilissimo sentirne parlar male. I rapporti didattici erano comunque l'ultima cosa al mondo che sembrava preoccupare gli studenti di Sociologia. Altri problemi li tenevano occupati: la rivoluzione il giorno dopo, la ragazza per passare la serata, il gruppo per la gita domenicale in montagna.
C'era molto sentimento in giro, oltre al crudo senso pratico di molti. Quello traspariva dai frequenti cori con chitarra (di Sandro o Gipo) e armonica (la mia), dalla lettura delle struggenti poesie di Prévert, al vecchio S.Chiara (la comune studentesca) con il sottofondo musicale delle canzoni di Joan Baez o di Fabrizio de André, nel clima diffuso di malinconia, quando si discuteva a lungo sul da fare tra una visita e l'altra della polizia alla comune, in cerca di droga dentro le chitarre ed i rasoi elettrici. Non ce n'era naturalmente.
Si era in tanti, ognuno con i propri impegni e problemi, come la Susanna di Torino, vaga bellezza bionda e longilinea, che il giorno andava spesso in giro con dei bimbi in braccio, perché faceva la bambinaia ad ore per sbarcare il lunario. Era di buona famiglia, ma come la maggior parte delle ragazze di Sociologia aveva rotto con quella. O come la Paoletta di Nola, brunetta molto carina e velata sempre di tristezza perché il suo amore era spesso trattenuto dalla polizia.
Calogero-Pippo ed io ci vedevamo tutti i giorni a tavola, assieme ad Enrico, Dodo, Sandro, Gipo, Daniela, Gisella, Carmela (siciliana naturalmente), Erina, Carla (l'unica del posto, ma non era sociologa), Serafino, Elettra, Rita e tanti altri. Dopo pranzo si stava parecchio tempo insieme e dopo cena spesso si cantava sotto la guida di Gioconda, allegra rocciatrice e segretaria d'azienda della Val Rendena: cori alpini; o si provava il sirtaki con Vula, una greco-turco-cipriota esule, vissuta diversi anni in Argentina ed ora a Sociologia senza una lira, in cerca di amicizia e di affetto. Calogero e Dodo erano un centro d'attrazione per l'auto disponibile, mentre a me si ricorreva per le spiegazioni filosofiche inerenti agli studi sociali. Del resto, anche la '500 di Calogero dovevo guidarla io perché lui aveva perso la patente alla nostra prima uscita. Con lui trascorrevo parecchio tempo. Era siciliano come me, docente di matematica alla Media, come io lo ero di lettere all'ITI. Temperamento quieto e tranquillo, forse un po' mesto, come me appassionato di opera lirica. Mi mostrava le foto della grande casa paterna ormai vuota, con la mamma perduta alla finestra, e non si capiva se rimpiangeva di più il paese lontano o si autocommiserava per essere stato respinto dai parenti del suo giovane amore di Matera. Perciò era venuto a Sociologia, dove aveva distrazione e la vicinanza della famiglia del fratello, militare a Bolzano.
I locali della facoltà, in quei giorni, erano diventati una esposizione permanente di graffiti tra l'osceno, lo scurrile e il goliardico. Sarebbe ridicolo e comunque impossibile riferirne i dettagli, ma le giovani mamme anticonformiste (rara e preziosa merce nella Trento di allora) portavano i bimbi a vedere, anche con i mariti.
I discorsi di Marco, uscito allora di prigione e subito laureato, in facoltà erano asettici nei confronti della repressione poliziesca e dei militari di Verona e Padova, ma la rabbia era enorme quanto l'impotenza. Si reagiva con le ragazzate, nonostante ogni tentativo di Marco di riportare il tutto in termini politici: Giovanni P., certo parente di un famoso Leopoldo, faceva caroselli in Jeep facendosi inseguire dai poliziotti che non riuscivano ad acciuffarlo. Nello sgabuzzino sotto il Museo delle Scienze cresceva il movimento ed aumentava la gente poco nota che faceva discorsi sempre più estremi. Il tutto però finiva in proteste inutili, accompagnate da grande rabbia. Le ragioni erano molte e troppo spesso valide.
Quando in pizzeria, tra un boccone e un sorso di birra, tra una pagina de Il posto del valore in un mondo di fatti di Koehler ed un capitolo delle Lezioni di Sociologia di Adorno, lo scoramento prendeva, le ragioni erano sempre molte, anche se non tutte ugualmente valide.
Con le ultime brevi e soffici nevicate, finito del tutto l'inverno e rifioriti gli alberi dei viali, in quei giorni le lotte si spensero a poco a poco, rifiorì la natura e gli animi si placarono. Ripresero gli amori, se mai si erano interrotti, e le passeggiate a Goccia d'oro e su per i torrenti fino ai laghetti dolomitici in disgelo, e lungo i boschi pieni di fiori odorosi, su su per la Val di Non e la Val di Sole, fino in Alto Adige in quei giorni.

Aprile 1986
Roberto Laudani








Postato il Sabato, 31 maggio 2014 ore 08:00:00 CEST di Michelangelo Nicotra
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