"Acquistai autorità sui discepoli, e
l'impressione fu durevole, perché, con quel fine fiuto dei giovani,
sentivano che in quelle lezioni io ci mettevo tutto me, ed ero sincero,
e non c'era ciarlataneria, e serbava modestia e naturalezza .... Io non
mettevo nessuna cura a velare i miei lati deboli; mi mostravo tutto al
naturale, e mi piaceva di stare in loro (dei discepoli, n.d.r.)
compagnia e spassarmi insieme con loro. Così nacque quella parentela
spirituale che non si ruppe mai più, e che ancora oggi m'intenerisce,
quando qualcuno di quei giovani mi viene innanzi alla mente".
Così, De Sanctis, nel 1889, nel frammento autobiografico della sua
"Giovinezza".
L' "impressione" del grande Maestro, non dovrebbe essere
ignota a chi, stando in mezzo ai giovani, sappia con
essi confrontarsi ogni giorno con autorevolezza, con umiltà e
passione, e competenza, in un'aula scolastica, nel non facile
compito dell'insegnare.
Marciscono, invero, le nozioni, quando sono impartite
meccanicamente (e svogliatamente) dagli insegnanti, e non
trovano ricadute significative sulle esperienze della vita
quotidiana dei giovani; e sono inutili, anche, se non colpiscono il
materiale e l'immaginario del loro cuore e della mente; fare scuola non
significa essere ligi a una pura formalità istituzionale; né propinare,
pontificando, una lezione (lectio) ex cattedra, imbastire un soliloquio
e fare una bella prolusione autoreferenziale per dirsi
Quanto sono bravo, Come mi piaccio.
Fare scuola, insegnare, significa, semplicemente, dare umilmente, e con
onestà intellettuale, lettura di un testo, e metterlo (e mettersi
in discussione, sentirlo e meditarlo, scavarlo; prendere partito sopra
quel testo, anche schierarsi - se occorre -; mettersi in ascolto degli
altri, commentarlo insieme con gli altri e confrontarsi e
scontrarsi con gli altri; vederne, se c'è, la perenne sua attualità, o,
comunque sia, la sua efficacia, oltre che estetica ed emotiva (se c'è),
anche pratica ed operativa.
Fare lezione significa, soprattutto, calarsi dentro alle cose, stare
dentro e fuori del testo in rapporto di confidenza e diffidenza
reciproca; significa abituare i giovani a saper leggere il
mondo che li /ci circonda, fornire loro, attraverso il testo, un
metodo di apprendimento in grado di permettere un
approccio sistemico critico-problematico con la realtà
considerata nella sua determinazione e permanenza. Solo così,
instaurando con i giovani studenti quella che il "professor" De
Sanctis definisce, nei suoi ricordi, appunto, "una parentela spirituale",
resterà qualcosa dentro il loro cuore e la loro mente. Altrimenti,
l'insegnamento corre il rischio di diventare sterile,
stupido e inutile, e noioso e avvilente, anche, come quello che
si vuole ammannire ridotto a pura e semplice "lezione
frontale", o, peggio, a quiz, a questionario precotto e
confezionato; a crocette vero /falso, o ad una semplice,
asettica, "statica" e rimasticata trasmissione di nozioni,
minacciosamente preludente a verifiche - interrogazioni - valutazioni
giornaliere dell'alunno, a mò di condannato a morte
allineato schierato davanti la cattedra dietro la quale, arcigno
e severo, sta il prof., con il suo dispiegato registro (on
line?).
Un siffatto modo di concepire l'insegnamento, sarebbe la fine non solo
della autorevolezza del docente e della sua credibilità, ma metterebbe
in discussione la scuola stessa in ordine al valore della sua
funzione e del suo delicatissimo ruolo didattico pedagogico educativo
nell'ambito della società civile.
Se non si capisce questo, veramente si dovrà
ammettere che la scuola è morta insieme con il suo
umanesimo!
Nuccio Palumbo
antonino11palumbo@gmail.com