Per molti
ragazzi una frase del genere - piacere di studiare - va considerata una
sorta di bestemmia, un’affermazione contro natura. Eppure la scommessa
è tutta là: riuscire a far passare i bambini e gli adolescenti dalla
posizione di chi pensa di essere sottoposto a un’ingiusta punizione
alla scoperta gioiosa che, se la vita è un gioco, perfino, o meglio,
proprio l’impegno dell’apprendimento può essere vissuto come un
continuo mettersi in gioco. Indubbiamente questa è una transizione
molto ambiziosa; ma, paradossalmente, è una missione impossibile più
per noi adulti che per i piccoli. L’errore che facciamo un po’ tutti,
genitori e insegnanti, è quello di ritenere che la strada da
percorrere, per imparare, sia quella di formare le nuove generazioni al
senso del dovere. Non che questo sia un male assoluto, ma credo che non
sia il modo migliore per risolvere la questione: una persona acerba non
riesce quasi mai a considerare il dovere un punto di riferimento
fondamentale. Piuttosto, ha bisogno di lavorare intorno ad altri due
elementi: io voglio, io posso. Io posso studiare, se soltanto lo
voglio; ho voglia di apprendere, se mi convincono che posso farlo in
modo efficace. Sto cercando di dire che il piacere di studiare è ben
altra cosa del compito di imparare. Innanzitutto perché coinvolge tutta
l’esistenza di una persona e non soltanto la sua intelligenza.
Conoscere è una questione di cuore e non soltanto di testa. È
un’impresa che ha bisogno di essere sostenuta più sul piano emotivo e
affettivo, che non sotto il profilo tecnico; va da sé che tutte le
nostre spiegazioni degli argomenti scolastici risulteranno
incomprensibili a un bambino e non serviranno a niente, se non le
porgiamo con amore, passione, dedizione, rispetto; capacità di
incoraggiare e sostenere questa fatica; atteggiamento di stima verso
chi la deve compiere.
Dobbiamo fare i conti, inoltre, con un’altra questione spinosa. Con
preoccupante frequenza i figli ai genitori e gli alunni agli insegnanti
chiedono a che cosa serve studiare certe materie. E noi, spesso, non
sappiamo che rispondere, perché è verissimo che la vita va avanti anche
se non conosco a fondo il teorema di Pitagora o chi era fra’
Cristoforo. Migliaia di generazioni prima di noi hanno convissuto con
l’ignoranza, e questo non necessariamente le ha rese meno infelici.
Anche l’affermazione che nel passato le società erano meno progredite
meriterebbe una seria revisione: vi è maggiore senso di civiltà e di
umanità in epoche che avevano minori opportunità e strumenti di
conoscenza. Il problema è un altro: studiare può non servire a molto,
ma può valere molto. È uno dei modi – non l’unico, ma sicuramente uno
dei più importanti - per soddisfare l’esigenza umana per dare un senso
alla propria realtà ordinaria. Sei ciò che sai, ma, soprattutto, è
importante che tu sappia ciò che sei.
A questa prospettiva nessun ragazzo può resistere a lungo. Ha bisogno
però che la scuola gli offra un sapere sapienziale e non soltanto un
mucchio di informazioni più o meno ordinate. Anche in casa deve toccare
con mano che suo padre e sua madre coltivano la conoscenza: ne hanno
cura, la abitano, la venerano. Negli ambienti quotidiani un bambino
deve poter riconoscere la presenza di adulti che ordinariamente fanno
manutenzione della cultura: delle parole, innanzitutto, che veicolano e
consentono di condividere le domande, i dubbi, le sfide, i confronti,
le risposte; delle informazioni, che non sono un bene esclusivo da
mettere in cassaforte, ma un elemento fondamentale da mettere a
disposizione di tutti, da offrire a chi è povero di sapere; delle
riflessioni capaci di dare qualità alla vita, che non possono essere
mai definitive, ma che vanno custodite e protette dall’insignificanza
del tempo che scorre. Il piacere di studiare nasce dove è evidente che
la conoscenza è un tesoro, senza del quale l’esistenza umana rischia di
perdere la propria direzione di marcia. Come il cibo, è una necessità,
ma è anche qualcosa che si può gustare per rendere belle anche le
giornate peggiori.
Marianna Pacucci