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Didattica: Elogio del ripetente

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Pinuccio non fa i compiti. Mirko gioca col cellulare. Davide rompe le penne. Romoletto scrive “vado ha casa”. Siamo di fronte a vecchi Pinocchi o nuovi somari? Cosa succede nella testa di molti adolescenti di oggi? Perché è così difficile coinvolgerli nelle attività didattiche? Per rispondere a queste domande non basta analizzare le statistiche dell’abbandono scolastico o interpretare i risultati delle prove di verifica. Bisogna indagare sulle emergenze sociali e culturali del nostro mondo, legate alla rivoluzione digitale, alla crisi della famiglia, alla frantumazione informativa, alla decadenza di principi morali un tempo ritenuti invalicabili.

Eraldo Affinati, insegnante e scrittore, autore del libro “Elogio del ripetente” (Mondadori), da sempre impegnato nel recupero dei ragazzi difficili, in quest’intervista, racconta con tenerezza non priva di ironia lo splendore e la fragilità dei quindicenni con cui divide l’esistenza quotidiana.

Il tuo libro ha un titolo che potrebbe apparire provocatorio, “Elogio del ripetente”. Perché questo messaggio in controtendenza rispetto alla linea generale che vuole individui adatti o perfettamente adattabili a prestazioni medie e standardizzate che spesso scambiamo per “eccellenza”.
«Questa riflessione sul “ripetente” nasce dalla mia esperienza biografica. Io insegno a ragazzi ritenuti “difficili” che arrivano all’istituto professionale come se fosse l’ultima spiaggia. Questi miei studenti spesso sono già stati bocciati all’istituto tecnico o al liceo. Sono, in altri termini, ragazzi “difficili”. Eppure, proprio loro ti fanno capire quanto sia profonda e diffusa una crisi etica generale, di cui la scuola raccoglie cocci e conseguenze. Il “ripetente” diventa, così, un frammento che la società vorrebbe allontanare da sé, ma che in realtà illumina e spiega molte cose di quella medesima società. I ragazzi “difficili”, i “ripetenti”, sono quasi dei “frantumi” di questo Paese. Frantumi che cadono in basso e che a noi tocca raccogliere».

Sono anche vittime di un crescente divario di possibilità. Spesso accettiamo senza troppo criticarla l’idea che si parta tutti dallo stesso punto, che in una società democratica tutti abbiano accesso agli stessi strumenti…
«Non tutti partono dalla stessa posizione, eppure tutti fingiamo che si parta da una linea comune. C’è chi nasce baciato dalla sorte e chi no, chi durante il suo percorso cade, inciampa, si rialza e chi invece prosegue senza intoppi. Ma dobbiamo uscire da questa finzione. L’Elogio del ripetente è un libro di campo sulla scuola italiana ma direi anche sulla società italiana e attraverso l’incontro con il ripetente ho cercato di capire alcuni snodi etici contemporanei. Snodi che riguardano noi, le nostre vite, qui e ora».

Come è possibile stabilire un contatto, una comunicazione che rompa una barriera di indifferenza che sembra fin troppo spessa?
«Per quanto riguarda il lavoro con i ragazzi ti devi mettere in gioco. Consideriamo che spesso questi ragazzi non hanno mai incontrato qualcuno nella loro vita che si mettesse in gioco per loro. Un adulto, intendo, che cercasse di cogliere le ragioni profonde della loro intemperanza, della loro rabbia e della loro indisciplina. Se questo riesce ottieni grande soddisfazione. Ci sono anche le sconfitte e le difficoltà, ma questa è la bellezza dell’insegnamento di frontiera. L’educatore è uno che si ferisce. D’altronde, se ti metti in gioco e ti coinvolgi non puoi che ferirti».

È un ruolo doppio e delicato, quasi da amico e da maestro se non ho capito male…
«Esattamente. Fai l’amico quando ti metti in gioco e intercetti il loro livello. Ma fai il maestro quando cerchi di incarnare il limite che loro non devono superare. Se tu fai tutto questo rischi molto, perché chiami in gioco anche i tuoi problemi. Devi sempre essere lucido e equilibrato. Il momento educativo è un momento complesso che chiama in gioco anche la “gioventù dell’educatore” ».

Che cosa intendi dire?
«Devi essere credibile e saldo. Non devi essere un eterno giovane. Ma questo richiede un duro lavoro che devi fare anche dentro te stesso».

Dobbiamo quindi guardarci dal rischio della seduzione…
«Questo è il punto vero. Se punti tutto sulla seduzione puoi ammaliare l’adolescente, ma poi quello stesso adolescente ti abbandona. Ti abbandona perché è stato spesso sedotto dai suoi genitori e dalla società. La scuola in fondo è rimasta l’unico luogo in cui questi ragazzi dovrebbero essere concentrati, rigorosi, attenti. La società, là fuori, li spinge invece altrove: verso i miti di carta del successo, della bellezza, della ricchezza. Ecco perché l’insegnante si trova spesso solo. C’è un senso di solitudine lancinante in chi insegna. Però proprio adesso quella è la frontiera che non va abbandonata. Se lasciamo sguarnita anche questa frontiera gettiamo nel vuoto una generazione».

Questo stare tra le due linee, nella tua narrativa, trova spesso la forma del viaggio… Stare sul campo è muoversi tra queste due linee cercando di raggiungere una postura etica…
«Quando scrivo parto sempre da un’esperienza concreta. Non riuscirei mai a scrivere inventando una storia. Naturalmente, questa esperienza trova il suo senso nella scrittura. L’ultima stazione di questi miei viaggi psico-fisici è sempre la scrittura: lì capisco se l’esperienza ha avuto un senso oppure no. In questa chiave, anche il mio ultimo libro è assolutamente in linea con “Campo del sangue” (1997) o “Un teologo contro Hitler” (2002) o “Pellegrin d’amore” (2010). Per me la scrittura serve a dar senso all’esperienza. Questo è lo statuto della letteratura. Ma lo constato anche nella scuola, quando ho a che fare con i ragazzi che, quando scrivono, se riescono a formalizzare l’esperienza, capiscono quello che hanno fatto. Lo dico soprattutto a proposito dei ragazzi stranieri, ai quali insegno lingua italiana».

Nel finale dell’Elogio del ripetente parli del sogno di un’altra scuola…
«È il sogno che coltivo nel concreto, con la Penny Wirton. Una scuola che ho creato con mia moglie, Anna Luce Lenzi, composta da insegnanti volontari disposti a mettersi in gioco insegnando la nostra lingua agli studenti stranieri. Studenti che spesso sono orfani, che arrivano come profughi e non conoscono una sola parola di italiano… Per loro imparare l’italiano significa diventare cittadini di questo Paese».

Tu dunque insegni all’istituto professionale e alla Penny Wirton, la scuola che hai creato 4 anni fa e che si sta diffondendo, come modello generativo, in tutta Italia. Ci spieghi un po’? Da che cosa viene il nome, prima di tutto?
«Penny Wirton è il protagonista di un racconto di Silvio D’Arzo (Penny Wirton e sua madre). La scuola è strutturata secondo un percorso di insegnamento che non avviene secondo la classica divisione “gruppi-classe”, ma a tu per tu. Per ogni docente ci sono al massimo due o tre allievi. Nel ruolo di docenti, ho coinvolto anche “ripetenti” e giovani di seconda generazione. Ecco allora che coloro che si trovano in difficoltà nella prima scuola, l’istituto professionale, trovano l’opportunità di mettersi alla prova assumendo una responsabilità inedita: quella dell’insegnante. Gli studenti della Penny Wirton sembrano spugne, tu versi acqua e loro assorbono tutto: eccolo il sogno di un’altra scuola. Fuori dalla finzione pedagogica: far finta di insegnare, far finta di ascoltare come spesso accade… Lì non c’è più finzione pedagogica, perché questi ragazzi vengono da te con una richiesta precisa: “insegnami a dire forchetta”, “insegnami a dire piatto”, “come si fa a trovare un lavoro”, “pane e acqua, vino”… Lì hai lo studente modello, eccolo dunque il sogno concreto di un’altra scuola: lo studente che ti sollecita. E’ possibile che lo studente venga e chieda. Siamo abituati a numeri, standard, test a risposte multiple e, cosa veramente penosa, perché presumono la malafede del ragazzo, a trabocchetto… Ma qui è come si riapparisse il volto, il nome… Se nel punto più critico di un’esperienza, questa esperienza ci sottraesse all’anonimato. È un rapporto esclusivo col singolo, non falsamente inclusivo…
Cercare il volto, cercare la persona è fondamentale. Se c’è motivazione, per esempio, anche il ripetente escluso dalla scuola tradizionale può attivarsi e diventare docente, può vivere un’esperienza del dare e del ricevere. Cercare il volto è la vera responsabilità a cui siamo chiamati. La responsabilità del prendersi in carico lo sguardo altrui».


Intervista di Marco Dotti (dal sito Vita)








Postato il Domenica, 16 marzo 2014 ore 07:30:00 CET di Angelo Battiato
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