"Ti ho mangiato con gli
occhi". E' questa la frase che ben sintetizza
la "filosofia digestiva" che aveva segnato le poetiche ottocentesche.
Ad un certo punto però, in una notte buia e tempestosa sul far del
nuovo secolo, irrompono le avanguardie artistiche. Simbolismo,
espressionismo, astrattismo attuano una rivoluzione copernicana anche
nelle dimensione estetica e filosofica. Da allora in poi, sarà la
coscienza a pensarsi altro da sé (sulla scorta del concetto di
intenzionalità husserliano), per "esplodere verso" l'opera d'arte.
Questo assioma, che non sfugge alla sensibilità critica di Giacomo
Debenedetti, è molto fertile in quelle poetiche del romanzo del
Novecento (ma potrebbe valere anche per certa arte) che eliminano la
vicenda a favore, appunto, di un "esplodere verso" del lettore, fatto
di "epifanie" e proustiane "intermittenze del cuore" (vicenda descritta
magistralmente dallo stesso Giacomo Debenedetti).
E' il caso dei notturni di Alfonso e
Nicola Vaccari, gemelli pittori da
Forlì, la cui intensità riesce spesso a farci respirare l'aria delle
stagioni cui si ispirano. E poi il gesto pittorico li rende sempre
vivi, in perenne movimento. Mai statici. A tal punto che vien voglia di
"esplodere verso" il quadro e abitarlo. Piuttosto che mangiarlo con gli
occhi, ingurgitandolo nelle nostre coscienze. Passeggiare lungo i suoi
viali, all'ombra dei suoi cipressi, per scrutare la luna. Il suo
fascino discreto e malinconico che ci svela, al suo chiarore, la magia
dell'arte. Ecco cosa può succedere, dunque, allo spettatore, nella
frazione di secondo in cui getta l'occhio verso un dipinto:
l'"esplodere verso" grazie ad una proustiana "intermittenza del cuore".
Circa un secolo dopo la sindrome
psicosomatica che provoca vertigini e
confusione, al limite dell'allucinazione, allo scrittore Stendhal,
rapito dalla bellezza delle opere d'arte di Firenze, la proustiana
Bergotte, in preda ad un colpo apoplettico, al cospetto di un quadro di
Vermeer (la veduta di Delft) sussurrava: "E' così che avrei dovuto
scrivere...I miei ultimi libri sono troppo secchi, avrei dovuto
stendere più strati di colore, rendere la mia frase preziosa in sé,
come quel piccolo lembo di muro giallo".
Esiste certamente uno scambio osmotico
tra scrittura e pittura, e
Proust ne era certamente convinto allorché definiva la scrittura alla
stregua di uno strumento ottico: "Ogni lettore, quando legge, legge se
stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento
ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello
che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso".
Sorvolando sul fatto che, qui,
Proust sembri un antesignano
dell'approccio fenomenologico alla lettura (teorizzato dai critici
della seconda metà del Novecento sulla scorta di Husserl, Heidegger,
Gadamer, Derrida ecc.), quel che è certo è che, sovente, la scrittura
diventi ancella della pittura. E, forse, anche il cinema. Sul set di
Barry Lyndon, Kubrick non ricorreva, infatti, a macchine da prese con
luce naturale, ispirandosi ai più famosi vedutisti e paesaggisti del
Diciottesimo secolo? Il film verrà, infatti, definito una "pinacoteca
di celluloide". Ma questa è un'altra storia...
Nino Arrigo - Ecodeimonti.it