È incredibile come
ancora ci sia qualcuno convinto che servirsi della letteratura per
spiegare alcuni aspetti della realtà non significhi affatto distrarsi
dalla specificità del testo. Di fatto, è la letteratura stessa che
invita i suoi cultori a non relegarla all'interno di quel novero
angusto dove, separata da ciò che la circonda, non potrebbe che
consumarsi su se stessa, diventare un esercizio sterile che esaurirebbe
presto la sua funzione, se mai potesse arrivare − secondo questa
traccia − ad averne una. Parlare di letteratura non impone
necessariamente di fare accademia oppure, sul versante opposto, di
sporcare la purezza dell'opera. Se, in sede di analisi, considero
l'estensione di ciò che è scritto su quello che circonda l'autore o,
viceversa, la ricaduta di un fatto effettivamente successo sullo
scritto letterario, facendo sì che gli estremi (posso definirli
impuri?) di questo rapporto non risultino snaturati, sto forse
travalicando il senso di ciascuno di essi?
Se anche osservassi che la letteratura è un luogo di salvezza, non
sarei comunque autorizzato a pensare che la sua comprensione passi
esclusivamente dal corpo a corpo col testo: si tratta di un punto di
partenza, di sicuro imprescindibile, che però deve condurmi da qualche
altra parte, fuori dai limiti della pagina.
Mi pare che un'indicazione possa fornircela Thomas Bernhard che
affronta la questione all'interno de La fornace (l'edizione originale è
del 1970, mentre la foto qui sotto, scattata nel 2013, è Cemento 4 di
Francesco Delia); lo fa, giocando romanzescamente sul modo in cui il
saggio dedicato all'udito al quale Konrad − il protagonista − sta
lavorando da quasi vent'anni possa finire per coincidere in tutto e per
tutto con la sua esistenza.
Il gigantesco inganno che ne deriva trova un equivalente materiale
nell'edificio posto al centro della vicenda, la fornace appunto, ma già
l'idea di esso assume una concretezza (che è anche salienza di stile)
riscontrabile in diversi momenti della storia. Ecco come l'autore
spiega la consistenza di quel raggiro sin dalle prime pagine:
«qualsiasi idea della fornace e persino l'idea di un'idea, è sempre in
ogni caso un'idea falsa, svilente. [...] La realtà è in realtà sempre
diversa, è il contrario che − in realtà − è sempre la realtà» (T.
Bernhard, La fornace, Torino, Einaudi, 1984, pp. 23-24).
Si vede bene come la costruzione della frase, come quella
dell'edificio, «è stata studiata mirando all'inganno totale» (p. 24) e
come la mente di Konrad (ma anche il suo corpo) sia fatta «proprio per
gli edifici come la fornace» (ibidem), un enorme carcere composto da
tante stanza vuote e da soffitte piene di robaccia. È questo stesso
luogo (idilliaco e anti-idillico per eccellenza) − insieme a una frase
che si ripete fino all'esaurimento − che arriva a esemplare quel
processo di dissolvimento dell'Io che tanto spesso, come nell'esempio
che riporto di seguito, ha attirato l'attenzione di Bernhard:
La massa nega al singolo ciò di cui soltanto la massa è capace e il
singolo nega alla massa ciò di cui soltanto la massa è capace, ma il
singolo non si cura della massa, in fin dei conti si cura solo e
soltanto di se stesso con gran vantaggio per la massa, così come la
massa non si cura del singolo con gran vantaggio per il singolo, la
massa riconosce l'opera del singolo solo attraverso l'annientamento del
singolo e il singolo riconosce la massa solo attraverso l'annientamento
della massa e così via. (p. 50)
Per sottrarsi a questa inevitabile deriva, per mettere il saggio nero
su bianco, Konrad sceglie l'isolamento assoluto della fornace, essendo
convinto che, distaccandosi dal resto del mondo, riuscirà più
facilmente nell'intento prepostosi. Una testa legata alla realtà
esterna troverebbe maggiori difficoltà ed è per questo che Konrad si
ritira dalla società, pur non potendo fare a meno di considerare il
pensiero che riuscirà a mettere il saggio per iscritto perché vive
nella fornace e, al contempo, il pensiero che non riuscirà mai a
mettere il saggio per iscritto proprio perché vive nella fornace (cfr.
p. 166).
Il saggio è tutto per Konrad e, una volta scritto, tutto sarebbe senza
importanza. Ma egli riuscirà a completarne la stesura? Anche se la sua
idea è già compiuta nella sua mente, sarà in grado di realizzarla,
ribaltando sulla carta ciò che è già nella sua testa? Oppure risiede
proprio nella sua compiuta incomunicabilità che la verità del saggio
assume un senso? E comprendere che i limiti del testo superano più
spesso di quanto si creda quelli della pagina, o che l'identità è
configurabile soltanto antagonisticamente, che i fatti non sono solidi
e che è lecito andare oltre il mero intento descrittivo o
formalisticamente corretto, non significa forse assumere una
prospettiva criticamente avvertita?
Alessandro
Gaudio - "Eco dei Monti", Nicosia