Il
Santo protettore degli animali e del fuoco, si sa, è festeggiato in
quasi tutti i comuni rurali d’Italia e quasi dappertutto la sacra
ricorrenza è caratterizzata dalla benedizione degli armenti e dai
fuochi propiziatori. A questa regola non fa certo eccezione la Sicilia.
A mò d’esempio citiamo la vampa di Campofelice di Fitalia e la
benedizione degli animali e dei trattori di alcuni paesi della Valle
del Sosio, a cavallo delle province di Palermo e Agrigento. Ad Aragona,
oltre alla benedizione solenne degli animali, i festeggiamenti
comprendono una ricca degustazione di prodotti tipici locali e una
caratteristica sfilata (acchianata) di cavalieri. Ma nell’Isola la
festa del 17 gennaio è più che altrove occasione per mangiare qualcosa
di diverso. «Cibo e festa – spiega Fatima Giallombardo – hanno
costituito un binomio inscindibile in ogni prassi umana, ben al di là
della cornice cerimoniale in cui il nostro modo di osservare e
percepire le culture tradizionali lo ha confinato. Non solo cibo per
fare festa, ma festa perché c’è il cibo, perché tutti siano presenti
realizzando quella interazione che fonda la socievolezza e rende
possibile la cultura.
Così, non meno delle celebrazioni legate al ciclo dell’anno, sia sacro
che produttivo, i grandi pranzi collettivi connotavano le scadenze
significative della vita individuale, fossero queste una nascita, un
matrimonio o la costruzione di una casa». Quale che fosse, però, il
menu, il pane non mancava mai. Simbolo dell’alleanza con il Creatore,
il pane è ad un tempo «alimento e segno, sussistenza e forma»; in certe
ricorrenze viene modellato in modo da significare che è festa, quella
data festa e non un’altra. «In questi casi – nota Alberto Maria Cirese
– il valore di forma o la funzione di segno travalicano […] il valore
di sussistenza e la funzione di alimento. E tuttavia la componente di
alimento e sussistenza continuano a permanere, così come la componente
formale resta anche quando si esca dai prodotti cerimoniali». A questo
proposito la realtà siciliana rimane ancora ai nostri tempi un campo
d’osservazione privilegiato.
A creare l’atmosfera festiva nei secoli passati era anche il consumo
rituale di altri alimenti, non ultimo dei quali la carne. In occasione
della festa di sant’Antonio Abate, protettore degli animali domestici,
– a detta di Vito Graziano – a Ciminna si solevano macellare, a spesa
della chiesa e di determinati devoti, fino a nove vacche. «La carne era
benedetta solennemente e dopo cominciava la distribuzione, nella quale
vi erano dei privilegi. Infatti un quarto di vacca toccava al barone e
un altro ai preti, fra i quali erano anche i privilegiati, perché
all’arciprete spettava una testa di vacca, al cappellano notturno della
Matrice un’altra testa di vacca e una quartana di sangue, al sacrestano
della chiesa li cosi di dintra. La distribuzione della carne al popolo
si faceva in proporzione all’elemosina fatta al Santo, e in quel giorno
era vietato ai macellai la vendita della carne. Per darle maggiore
fragranza, la carne era ornata con rami di alloro e di arancio, e si
racconta che una volta, in mezzo a detti rami fu dimenticato un quarto
di vacca, che nell’anno seguente fu trovato per miracolo del Santo sano
e fresco».
Nella stessa occasione a Ciminna si faceva omaggio al popolo di «panini
(panuzzi) che erano grandi quanto un soldo di pane di quel tempo e
distribuivansi alle confraternite, le quali intervenivano alla
processione del Santo. Il frumento era comprato a spese della chiesa;
ma, cessata la macellazione delle vacche, i detti panini furono
sostituiti da altri più piccoli senza lievito, detti divuzioni e fatti
di varie forme, fra le quali quella di maiale o di fiamma. Si facevano
pure molti pani di S. Antonio e si distribuivano ai poveri. Ogni
sagrestano che suonava le campane aveva diritto a un pane, ma a quello
di S. Antonio spettava anche un fiasco di vino, perché il giorno della
festa, due ore prima di far giorno, suonava lu patrinostru, chiamato
così perché al suono di quella campana ogni persona doveva recitare un
paternostro al santo della chiesa».
Il culto di sant’Antoni, un tempo, era diffuso in tutta la Sicilia. Un
esemplare di pane a forma di maiale, preparato a gloria di Sant’Antonio
Abate, fu esposto da Giuseppe Pitrè nella mostra della Esposizione
Nazionale di Palermo del 1891-92. A Noto ancora negli anni cinquanta
del secolo scorso si preparava una grossa «cuddura», ciambella che
poteva raggiungere anche il peso di 10 chilogrammi. Dopo la
benedizione, che si faceva dopo la cerimonia religiosa, il pane veniva
distribuito a coloro che avevano prestato servizio ai poveri. A
Canicattini Bagni si lavoravano «dei panini a forma di ciambelline di
appena 5 cm di diametro con farina di grano duro, e senza sale: sulla
congiunzione delle due estremità s’imprime la parte piatta di una
chiave, in modo che vi si lasci l’impronta. Questi panini vengono
portati nella chiesa madre, dove si venera una statua di S. Antonio e,
una volta benedetti, si distribuiscono a tutti i fedeli, i quali li
mangiano dopo aver recitato una preghiera. Una di queste ciambelline si
conserva e si appende con un nastrino rosso per proteggere la casa dal
pericolo d’incendio». Altrove si appende anche nelle stalle.
A Paternò il 17 gennaio i fornai confezionano panuzzi di pasta dura che
sono acquistati dai devoti del Santo, che li fanno benedire dal prete e
li distribuiscono a parenti ed amici. A Cerami, paese di allevatori
transumanti, il Santo protettore degli animali è festeggiato l’ultima
domenica di giugno quando gli armenti hanno appena raggiunto i pascoli
di montagna. «Il giorno che precede la processione si svolge una
suggestiva e tipica sfilata di cavalli con l’offerta ai partecipanti di
pane, formaggio e vino».
Prof. Pippo Oddo