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Didattica: Guardare, costruire, ragionare. Cosa ho imparato da Emma Castelnuovo

Redazione
Ho avuto la grande fortuna di essere stato allievo di Emma Castelnuovo quando frequentavo la scuola media e, ripensando alle sue ricerche e proposte didattiche, la prima cosa che mi viene in mente riguarda la loro straordinaria attualità. Il problema dell’imparare e dell’insegnare a guardare è infatti, a mio avviso, attualissimo ed urgente. Anni fa, in un convegno organizzato dalla Casa-laboratorio di Cenci, Emma sottolineava che, in genere, l’apprendimento della matematica è presentato come un passaggio dal concreto all’astratto. Ma forse il problema, per i ragazzi di oggi, sta nell’esatto contrario: nel ridare spessore e concretezza a sguardi assuefatti alla virtualità e spesso incapaci di andare oltre la superficie delle cose.

Il problema che abbiamo di fronte noi educatori riguarda il fatto che bambini e ragazzi hanno una enorme difficoltà a soffermarsi sulle cose e ad osservarle con attenzione. Viviamo nell’epoca dell’immagine, ma dobbiamo domandarci quale sia la qualità del nostro guardare e percepire il mondo.

Emma ha sottolineato negli ultimi anni, in più occasioni, la crescente perdita di durata del nostro guardare. Si guarda l’inizio e poi rapidamente la fine. Gli spot pubblicitari rappresentano bene il tipo di sguardo che il nostro tempo richiede. Uno sguardo in cui prevale l’aspetto dell’appropriazione rapida dell’immagine, che è spesso legata al consumo.

Ora, poiché sono convinto che un ruolo importante della scuola, come dell’arte e della cultura, sia quello di opporre resistenza e offrire strumenti e possibilità di critica verso il proprio tempo, mi tornano in mente con forza gli insegnamenti di Emma, che ha sempre proposto e dato grande spazio ad uno sguardo prolungato verso le cose e i fenomeni del mondo.

La sua matematica partiva sempre da un’educazione dell’occhio, sostenuta da un ricorso continuo ai ricordi e alla memoria che ciascuno aveva dei propri sguardi. Nell’intreccio tra memorie individuali condivise e l’osservazione collettiva si innestavano le sue proposte di ragionamento, fondate sulle ipotesi che ciascuno di noi formulava.

Oggi si ricorda sempre di meno. Ci sono talmente tanti mezzi per memorizzare le cose in modo artificiale che la memoria sembra non servire quasi più. Perché ricordare un numero telefonico, infatti, se è registrato nella memoria del mio telefonino?

Il problema è che la diminuzione del valore dato alla memoria comporta un assottigliamento del presente. E poiché è solo nel presente che noi facciamo esperienza, la mancanza di durata data all’osservare o al considerare con attenzione qualcosa porta ad una modificazione del nostro pensare, ad una modificazione dell’uso che facciamo del nostro cervello. È chiaro che il cervello si adatta e cambia alcuni suoi modi di funzionamento nelle diverse epoche. Chi doveva memorizzare ogni cosa perché analfabeta, ad esempio, aveva certo un modo diverso di strutturare e conservare il proprio sapere nella mente.

Anche se non fosse più necessario credo che noi, per precauzione se non altro, dobbiamo continuare ed insistere nel dare grande valore alla memoria e all’approfondimento. Nella scuola, innanzitutto, valorizzando proposte come quelle elaborate da Emma Castelnuovo, che ha sempre cercato, attraverso la matematica, di allargare e approfondire lo sguardo.

A distanza di quasi cinquant’anni ricordo con nitidezza come Emma ci faceva osservare i giochi che i raggi del sole compivano sul pavimento della nostra classe, componendo e piegando parallelogrammi.

Pur non avendo più studiato matematica, ricordo bene che quelle figure erano affini ai vetri quadrati di cui erano composte le grandi finestre della nostra scuola. Ricordo bene che anche le ombre dei segnali stradali, siano essi triangoli, rettangoli o cerchi, sono affini alle figure di cui sono la proiezione. Aggiungo qualcosa di più: ogni volta che vedo per strada l’ombra di un segnale stradale, non riesco a non pensare a quel nostro osservare e discutere di allora… Questo mi fa dire che l’intreccio tra la qualità emotiva, intuitiva e cognitiva delle lezioni di Emma era tale che, ancora oggi, mi tornano alla mente con tanta nitidezza.

Anni dopo, quando mi sono trovato a fare il maestro elementare, mi è capitato ciò che credo capiti alla maggioranza dei nuovi insegnanti. La prima volta che entriamo in classe, non sapendo cosa fare, ci viene spontaneo di imitare, magari inconsciamente, ciò che facevano alcuni nostri insegnanti. Anche quando si diventa genitori capita qualcosa di simile. Senza saperlo, e in certi casi senza volerlo, imitiamo i modi con cui ci hanno educato a casa quando eravamo bambini.

Ricordo dunque che durante la mia prima supplenza in una scuola elementare della Magliana, a Roma, non sapendo da dove cominciare, ho proposto ai bambini di guardare e disegnare le ombre e i loro movimenti, cercando dentro di ricordare il meglio possibile cosa ci faceva fare in classe Emma. Tutto era diverso perché i bambini erano più piccoli e la situazione sociale non era facile.

Eppure, partendo da quei giochi di luci e di ombre, ho piano piano ricostruito il senso dell’operare di Emma.
Emma surrealista, Emma ecologista…

Ci sono tante qualità dei suoi insegnamenti che credo sia importante sottolineare.

La prima la chiamerei Emma surrealista. Una sua caratteristica, infatti, era quella di portare in classe ogni genere di oggetti, che poi ci proponeva di usare attivando la nostra immaginazione.

Per mostrare figure geometriche e spiegarne le proprietà, Emma usava bastoni, fili, chiodi e tavolette, ma anche oggetti di scarto trovati chissà dove. In questo fu certamente ecologista ante litteram.

Ricordo, ad esempio, che un giorno che venne a trovarmi a Cenci con Nicoletta Lanciano, volle a tutti i costi portarmi la base di ferro di un vecchio appendiabiti, che aveva trovato in un cassonetto. «Le curve credo che siano delle iperboli – mi disse regalandomelo – e in ogni caso tu troverai il modo di utilizzarlo». In effetti, a guardare con attenzione, i cassonetti sono pieni di parabole…

Leggo, in questo suo dare valore agli oggetti che si pensano ormai inutili, un sapere artigiano di cui era portatrice. Sapere che è stato alla base di quegli straordinari marchingegni matematici inventati da lei e dai suoi allievi.

Con il suo fare infervorato, ci ha infatti sempre insegnato che ogni oggetto, prima o poi, può servire per imparare qualcosa. E oggi, in un mondo così diverso da quello degli anni Sessanta, il valore dato alle possibilità transitive degli oggetti, mi appare come un prezioso antidoto contro un consumismo incapace di cogliere tutte le possibili trasformazioni delle cose e del loro uso.

Sempre più precocemente si cominciano a considerare gli oggetti solo per quel che sono e, se si guastano, li si getta via senza pensarci.

Eppure una quantità straordinaria di esperienze e di scoperte, bambine e bambini le compiono nei primi anni di vita, immaginando e giocando a stravolgere le cose, dando a loro i nomi e i significati più vari.

Quello dell’inventare aspetti e funzioni inaspettate agli oggetti quotidiani è forse il primo gioco infantile. Un gioco che svolge un ruolo cruciale nella crescita. Ma gli spazi per questo gioco si assottigliano sempre più perché i bambini, fin da piccolissimi, vengono a contatto con oggetti strettamente identificati per un solo uso.

Così si presentano infatti i giochi elettronici, che certo stimolano reazioni sempre più rapide ma, proprio per la velocità di riflessi che pretendono, lasciano ben poco margine a visioni e digressioni più intime e personali, covate in un tempo lungo e in spazi solitari.

Limitare le capacità poetiche che gli oggetti più vari suscitano nei bambini, quando sono liberi di giocarci come pare a loro, penso sia pericoloso e possa indurre ad un inaridimento culturale.

È nella capacità mimetica infantile, infatti, che ogni generazione riscopre le radici umane più arcaiche. Quelle che portarono i nostri antenati a trasformare un ramo d’albero nel manico di un martello ed una pietra aguzza nel primo, rudimentale aratro, dando avvio a quella costruzione di artefatti che sta all’origine della storia e di ogni cultura. E certo anche della matematica che, alle sue origini, fu registrazione di tempi e misurazione di spazi.

L’invito di Emma ad usare la logica per crescere e, insieme, a giocare con le mani e l’immaginazione sapendo conservare lo stupore e l’apertura mentale dei bambini, mi sembra una possibilità rara nella scuola, da proteggere con cura. Non ci avevo mai pensato prima, ma forse è proprio nel collegamento tra l’intuito mimetico infantile e lo sguardo della ragione che astrae che sta il segreto dell’educazione estetica proposta da Emma.

Non c’è argomento matematico, infatti, che Emma non ami presentare mostrando come l’uomo ci lavori nell’arte e nell’architettura, così come è sempre forte il suo desiderio di far vedere quanto la natura giochi con la matematica, siano le api con gli esagoni o coste e nuvole con i frattali.

Emma ha sempre insegnato matematica cercando corrispondenze, a partire dalla più antica ed elementare: quella che lega la mano al cervello, il ragionare e al costruire.

I concetti-esperienza e la cura della lingua

Il modo in cui lei adoperava i materiali, tuttavia, non poneva mai in secondo piano il linguaggio ed il ragionamento.

Anzi, era proprio dall’incontro tra il costruire e il parlare che nascevano e si consolidavano quelli che vorrei chiamare concetti-esperienza. Concetti, cioè, che a noi allievi divenivano familiari non solo perché ci tornavamo di frequente, ma perché legati, appunto, ad esperienze concrete.

Tornare e ritornare sul concetto di affinità usando tanti materiali diversi, ad esempio, insegna ad esseri duttili e aperti nello sguardo e a cogliere nessi e permanenze. Non è banale, infatti, scoprire che le stesse proprietà si mantengono sia tra le proiezioni di figure piane esposte al sole che per figure disegnate su una fascia elastica, che viene tirata ed estesa.

La manualità pratica è sempre più lontana, oggi, dalla vita quotidiana di bambini e ragazzi. Nella scuola il corpo sembra costretto ad un forzato letargo, così l’usare le mani per approfondire un concetto è cosa purtroppo rarissima. Ed è un peccato perché costituisce una pratica straordinariamente creativa, in un tempo in cui i ragazzi pensano che è possibile creare solo nel mondo virtuale.

Sono convinto che l’uso di martello, viti e chiodi sviluppi una qualità di intelligenza necessaria e complementare rispetto a quella richiesta dal computer.

È assai diverso, infatti, creare delle coniche attraverso un programma che ti permette di vederle sullo schermo e costruire con due cerchi di plexiglas e venti elastici bianchi sottili, un cilindro che, ruotando lentamente, si trasforma in un doppio cono. Questo oggetto, quando viene attraversato da un piano di luce, disegna nello spazio ogni genere di coniche ed è, a mio avviso, tra le più belle costruzioni inventate da Emma.

Un altro aspetto del suo insegnamento che voglio ricordare riguarda il linguaggio. Lei ci teneva moltissimo e che noi parlassimo con precisione e chiarezza di quello che facevamo. La cura della lingua era per lei fondamentale.

Così, facendo matematica, oltre a sentire che l’importanza delle nostre intuizioni e dei nostri pensieri, imparavamo anche a come meglio esprimerli. Ricordo ad esempio che un nostro compagno che non andava bene in italiano, una volta che Emma ci diede da fare un tema di matematica, fu l’unico a prendere dieci. Dieci era un voto che Emma non aveva mai dato e ricordo quanto era soddisfatta, nel mostrare quel tema all’incredula collega di lettere.

L’invito continuo all’osservazione, l’uso delle mani e la cura della lingua costituiscono, a mio avviso, le fondamenta del fare scuola di Emma Castelnuovo.

Il tornare tante volte su uno stesso tema e apprendimento faceva parte del suo metodo perché lei teneva molto a che noi riconoscessimo le cose e, in verità, credo di avere compreso il senso profondo del suo metodo solo quando ho cominciato ad insegnare.

Una volta una mia alunna di quinta elementare, infatti, dopo che per un anno avevamo guardato, disegnato e fatto misurazioni osservando la luna, scrisse in un tema: «Ora la luna non la guardo più, però la vedo sempre». Leggere quella frase mi regalò un momento di felicità, che credo di dovere dedicare ad Emma Castelnuovo e al modo in cui ci ha insegnato a guardare.

Franco Lorenzoni - Lavoroculturale.org








Postato il Giovedì, 02 gennaio 2014 ore 07:45:00 CET di Michelangelo Nicotra
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