I Normanni
concessero ai Vescovati estesi possedimenti comprese le nivere con
l’obbligo, però, di approvvigionare di neve le città sedi delle curie.
Al vescovo di Catania concessero buona parte delle falde dell’Etna e le
cosiddette tacche di neve, profonde insenature tra le colate laviche
dove la candida manna si accumulava naturalmente. Per raccoglierla in
quantità apprezzabile, e senza troppe impurità, erano necessarie alcune
operazioni precise. «La prima di queste – osservava, all’inizio del
Novecento, un celebre geologo francese – si effettua in ottobre, e
consiste nel far ripulire le tacche, togliendone le pietre che vi
fossero cadute dentro, e le foglie o le sudicerie rimaste dopo
l’estrazione di neve dell’anno precedente. Dopo che, nel mese di
febbraio, la neve s’è accumulata nelle infossature del suolo, una
squadra di 50 o 60 operai si reca in marzo sulla montagna, e con lunghe
aste di ferro graduate rileva la profondità dello strato nevoso. Lo
scavo si limita ai punti dove lo spessore della neve raggiunge i tre
metri; e di queste zone utilizzabili sono indicati i limiti per mezzo
di mucchi di cenere eruttati dal cratere».
Da notare che tutti i lavori preparatori si facevano di notte: «Al lume
della luna o della torce, gli operai ricoprono la superficie
utilizzabile con uno strato di cenere alto 30 centimetri, avente agli
orli uno spessore doppio; e lo scopo di siffatta copertura è il
difendere la neve dai caldi raggi solari. In tal modo si preparano
quattro o cinque tacche, a seconda dell’abbondanza della neve, che
vengono aggiudicate a un imprenditore, il quale è passibile di una
fortissima multa nel caso che lasciasse Catania priva di neve». Più
complesse erano le operazioni di raccolta: «Giunta l’estate per
raccoglier la neve si sbarazza quest’ultima [la tacca] del suo mantello
di cenere e poi se ne divide la superficie in una rete di tanti
rettangoli per mezzo di strumenti di ferro, che vanno sino a metri 1,50
di profondità. Lungo il giorno un po' di neve è fusa dal sole e l’acqua
che penetra nei solchi scavati nella massa si congela durante la notte
seguente; in tal modo la neve può esser divisa in blocchi
parallelepipedi, che hanno le facce congelate. Questi blocchi vengono
ricoperti con foglie di felci e di castagno, poi sono chiusi entro
sacchi, di cui un paio per ogni animale è portato a dorso di muli e su
carri; la neve è distribuita a Catania e alle città vicine».
Ma tutte le città siciliane erano approvvigionate di neve che veniva
raccolta anche su monti diversi dall’Etna. A Girgenti (Agrigento), per
esempio, la neve arrivava dal monte Cammarata. A Palermo c’è ancora un
toponimo che ricorda questa antica attività che legava la pianura alla
montagna, l’entroterra alla costa: Vicolo della neve all’Alloro. In
questa vecchia stradina un tempo arrivavano tutti i giorni retini di
muli e asini carichi di blocchi di ghiaccio intagliati nelle nivere
delle Madonie e di Rocca Busambra: ci fosse caldo o freddo, la nobiltà
palermitana non rinunciava mai ai sorbetti e alle bevande gelate. Era,
tra l’altro, opinione diffusa in tutta la Sicilia che le bevande fredde
facessero bene alla salute. La carestia di neve era perciò considerata
«un danno uguale a quella del vino e dell’olio», occasione di disordini
persino, come testimonia il pittore francese Jean Houel che si trovava
in Sicilia un brutto giorno che i Siracusani si diedero all’arrembaggio
di un natante carico di neve, «con perdita di alcuni di loro nel
conflitto».
Si comprende quindi bene perché nel 1761 la Principessa di Villafranca,
padrona dello Stato di Buccheri, stabilì con un bando del governatore
che nessun vassallo potesse raccogliere anche una sola palla di neve
prima che si riempissero tutte le sue nivere (grotte e ripari in pietra
vulcanica a secco con copertura a cupola o a volta). E non è senza
ragione che ancora adesso il più grande industriale siciliano del
gelato sia, appunto, il Principe di Villafranca.
Né erano soltanto quelle cui abbiamo accennato le nivere di Sicilia. Ce
n’erano tante altre a fossa o a pozzo sullo stesso Monte Lauro, su
Pizzo Cane, Monte San Calogero, Pizzo Niviera, Monte Genuardo, la
Pizzuta, Monte Barracù, Montagna delle Rose; ce n’erano persino sulle
modeste alture che fanno da corona alla Conca d’Oro (Monte Cuccio) e in
provincia di Trapani: sul Monte Inici e su un’altura boscosa nei pressi
di Vita. «Nei paesi attorno alle Madonie – assicura Luigi Romana – fino
alla Seconda guerra mondiale si produceva il gelato con il ghiaccio
proveniente dalla montagna, se lo ricordano benissimo gli anziani Mario
Fiasconaro di Castelbuono, Domenico Sottile di Isnello, Domenico
Ferrara di Locati, gelataio ambulante fino agli anni ‘50 del secolo
scorso.
Da alcuni anni il CAI di Polizzi Generosa organizza la Festa della
Neve, una manifestazione gioiosa che fa scoprire ai partecipanti la
sorpresa della neve nella stagione estiva. Grazie ai preziosi ricordi
dell’anziano Peppino Intravartolo, morto recentemente, è stato
possibile localizzare la neviera a pozzo di Piano Principessa, a 1860 m
di altitudine, dove il ghiaccio riesce a conservarsi quasi naturalmente
e con pochissimo intervento umano sino alla fine di luglio».
In quale altra terra, se non in Sicilia, il sorbetto poteva evolversi
in gelato e granita? Dove poteva essere inventata la cosiddetta
giardiniera, quella «fresca delizia al cedro, alla fragola e al
pistacchio, sormontata da colorati canditi», che lo chef della
gelateria Ilardo nel 1860 preparò per Garibaldi, ispirandosi ai tre
colori della bandiera nazionale? La giardinetta è tuttora una delle
specialità che si gusta da Ilardo. «Questo storico bar, racchiuso in
una piccola porzione delle mura delle “Cattive” – nota Valentina
Caviglia – è un paradiso per golosi e amanti delle ricette locali che
qui potranno gustare il loro gelato godendo della vista del mare».
Eppure c’è chi sostiene che il gelato vero e proprio, cioè il mantecato
di crema, sia stato inventato a Firenze nel secolo XVI, forse per opera
di Bennardo Buontalenti. Se così fosse stato, non si capirebbe perché
Caterina Dei Medici, che ne diffuse il consumo in Francia, si sia
circondata di gelatai siciliani.
Ancora più stupefacente è leggere nell’enciclopedia per ragazzi Vita
Meravigliosa: «Inventore della macchina dei gelati ancora adottata per
l’uso domestico (un recipiente metallico con agitatore a spatola, posto
in un mastello per contenere il ghiaccio) fu un altro fiorentino,
Procopio Coltelli». Ma non c’è campanilismo che tenga di fronte ai
fatti: Francesco Procopio dei Coltelli (e sottolineo la preposizione
articolata) era uno squattrinato nobile siciliano, capace di sopperire
all’ormai cronica mancanza di denaro con la ricchezza del suo ingegno.
Non per nulla fu il primo ad aprire, nel 1686, un caffè all’italiana a
Parigi, il Café Procope. Da vero uomo di mondo, Procopio dei Coltelli
dimenticò le due ultime vocali del proprio nome, ma non certo le
ricette di casa sua. Servì ratafià, rosoli, maraschino, anice, grappe
variamente aromatizzate, spremute di limone e, ultima meraviglia,
sorbetti e gelati. E, insieme a tutte queste cose, anche un tocco di
raffinatezza che poteva solo albergare in un gentiluomo siciliano.
Onore alla verità, dunque; onore alla fantasia creativa di questo
intraprendente figlio di Sicilia!
Prof. Pippo Oddo