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Nuove Tecnologie: Chi c’è dietro Change, l’ex maestra che cambia il mondo con le battaglie civili

Rassegna stampa
Jen DulskiCinquanta milioni di utenti. E cinquecento mila petizioni. Dalla richiesta di aumentare l’illuminazione nel quartiere, passando per i diritti degli scout gay fino alle attività di lobbying per modificare le costituzioni. Quando nel 2007 Ben Rattray decise di creare una piattaforma di petizioni online, non immaginava che sarebbe diventata uno degli strumenti di democrazia liquida più usati in rete. E non pensava che il Time di lì a pochi anni lo avrebbe inserito tra i cento personaggi più influenti al mondo. Oggi le petizioni lanciate su Change.org arrivano sul tavolo di Obama, finiscono nelle caselle di posta dei premi Nobel e contribuiscono, qualche volta, a migliorare le sorti dell’umanità. Ma non solo. A utilizzarla sono soprattutto i giovani e le donne (il 60 per cento degli utenti sono di sesso femminile).

Asso nella manica di Rattray è Jen Dulski, ex maestra ed ex manager di Google. Questa quarantenne dall’aria apparentemente gentile ma che in realtà ha la fermezza di una leonessa, da poco è diventata Chief operating officer di Change.Org. Più vicina a Naomi Klein e alle studiose di tecnologia come Parmy Olson che alle femministe da cover patinata come Sandberg e Mayer, Jen va dritta al punto quando spiega:

“Google ha reso possibile la diffusione del sapere. Ma non tutto quello che esce dalla Silicon Valley è bene. Occorre dunque riequilibrare lo strapotere delle big companies e riportare un po’ di democrazia sul web”.

Dulski decide di passare a Change dopo la morte di Trayvon Martin, ragazzo di colore ucciso da un poliziotto in Florida solo perché aveva un atteggiamento sospetto. “Mi sono sempre chiesta come si possano accorciare le distanze tra i cittadini e la politica. E ho trovato nella petizione online un mezzo”. L’appello via web è solo un piccolo passaggio del processo di decision making (il processo decisionale). Ma, se si considera che ogni giorno commentiamo le notizie di cronaca sulle nostre bacheche Facebook e Twitter, ci indigniamo e segnaliamo ingiustizie e soprusi, incanalare questo flusso di informazioni non è un’idea poi così stupida. E l’idea è ancora più intelligente se frutta denaro. Change funziona grazie a un sistema di donazioni spontanee. Il meccanismo è semplice: chiunque può registrarsi al sito e avviare, gratis, una petizione riguardo un determinato tema. In cambio può lasciare da un euro/dollaro in su.

Secondo i maligni, i ricavi di Change sono enormi. Wired addirittura li ha paragonati a quelli di Google. Un’esagerazione. Ma di sicuro questo servizio all’apparenza no profit in realtà mira a fare profitti. Le Onlus e le associazioni che vogliano promuovere le loro campagne possono farlo a pagamento sulla piattaforma. Inoltre da gennaio verrà lanciata la possibilità per i decision maker (che siano politici o meno) di aprire degli account e di ricevere direttamente segnalazioni e petizioni. Un servizio, insomma. O un Amazon della carità come mormorano i detrattori.

Change ha conquistato anche il pubblico italiano (gli utenti nel nostro Paese sono 1 milione e 700 mila). Non a caso a Roma si è formato un team di quattro persone, tutte provenienti dal mondo del no profit, capitanate da Salvatore Barbera, ex campaign manager di Greenpeace. Tante, oltre seimila, le petizioni che sono rimbalzate sugli schermi del nostro paese. Dalla cittadinanza italiana per Cristian, discriminato in quanto affetto da sindrome di Down, lanciata dalla madre Gloria Ramos (la sua storia è stata raccontata per la prima volta da Alessandra Coppola sui blog del Corriere della Sera I nuovi italiani e la Città Nuova ). Ma anche l’appello di Gabriele Muccino per limitare l’ingresso delle grandi navi nella laguna di Venezia o la petizione per sostenere la nomina del Maestro Claudio Abbado Senatore a vita, promossa da Ilaria Borletti Buitoni, sottosegretario al Ministero dei Beni Culturali. Tutte iniziative che sono andate a buon fine e che hanno contribuito ad accrescere il successo di questa forma di marketing sociale. E che – come spiega Barbera – “hanno il merito di nascere dal basso e di scalfire il corporativismo italiano”.

Marta Serafini
seigradi.corriere.it
28/11/2013








Postato il Giovedì, 28 novembre 2013 ore 13:13:20 CET di Redazione
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