Era logico che anche la letteratura, condotta per mano da
patetici mestieranti, arrivasse in tv, e ci arrivasse nel peggiore dei
modi: squinternata, denudata del silenzio e della concentrazione,
spogliata di ragioni, svestita della fatica. Esibita. L’hanno fatto
prima col nozionismo quizzaiolo che ormai è sdoganato perfino a scuola,
poi con la privacy familiare, poi con la musica, poi con la danza;
perfino coi bambini dati in pasto ai bavosi cannibali della democrazia
del gusto. Figuriamoci se la televisione avrebbe dovuto avere qualche
remora con la letteratura. Del resto, in questa disneylandizzazione
della cultura che sempre più imperversa in Europa e in Italia, coi suoi
festival, i corsi di scrittura creativa, i concorsi letterari fitti
come gli aculei di un istrice, gli eventi culturali, (che inconcludente
espressione!) c’è la dimostrazione di quanto non sia importante il
“manufatto”, il libro, quanto il protagonismo di chi lo maneggia, di
chi ne farfuglia l’idea, di chi ne vagheggia le atmosfere, di quel
pubblico che a vario titolo gli bivacca o gironzola intorno senza
sentire nemmeno l’esigenza di leggere gli autori; il protagonismo di
quanti insomma amano infiocchettarsi della cultura per ostentarla come
status symbol.
D’altro canto, gli addetti ai lavori, questi taumaturghi dell’editoria
che contribuiscono a sprofondare l’Italia nel baratro dell’ignoranza,
mostrano una fantasia davvero encomiabile: tutto inventano per
acculturare le masse, per fornire alle orde statusimboliste il nettare
del doglio meno avaro: quello fatto di gadget, di biglietti omaggio, di
appuntamenti nei luoghi più chic e improbabili, e – tenetevi forte –
perfino del contatto con uno scrittore in carne e ossa; di quelli che
vendono tanto, naturalmente.
E il format “Masterpiece”, questo tribunale da avanspettacolo che
"giudica e manda secondo ch’avvinghia”, questa trimurti
mariadefilippiana non fa altro che liofilizzare la letteratura,
offrendo al pubblico la sua apoteosi, che è poi il suo avvelenamento:
la mancanza di sforzo, la gratuita pigrizia. Gli offre una
partecipazione "attiva" all’annichilimento sbrigativo dell'autore:
occhiate, pause indagatorie, smorfie, giudizi sommari, citazioncine ad
effetto. Oppure lo rende partecipe dell’incensamento del “fortunato”
con altrettanto spicci segnali: epidermiche effusioni, visi illuminati,
convincimenti ancestrali, atti di fede muzioscevoliani.
Latitano, come dicevo, le ragioni, ossia i ragionamenti. Latitano i
giudizi di valore. Provo grande imbarazzo per gli scrittori lì
convenuti, specie per i meno giovani: stretti nelle spire di un gioco
sciocco e umiliante, in una galleria antropologica che va
dall’esibizionista al masochista, e che sembra non aver fine
nell’Italia di questi tempi minchioni.
Qualunque cosa sia la letteratura, sono certo che essa mostri il suo
lato migliore nel silenzio della lettura e della comprensione, nella
conquista interiore di un significato, di una sfumatura. In una empatia
destinata a non svelarsi del tutto, a rimanere forte e segreta. E’ lì
la forza di un libro: nell’intima consapevolezza che ne ha il lettore,
nella sua intelligenza. Il resto è sociologia di mercato, e qualche
volta volgare accattonaggio.
Filippo Martorana