Matteo Collura,
nel suo ennesimo libro sulla sua amata e mai dimenticata Terra
d’origine, ritorna a fatti, temi e personaggi che l’hanno meglio
caratterizzata e lo fa, stavolta, complice anche e sempre il paesaggio,
proponendo una serie di miti (più o meno vicini nel tempo e/o più o
meno conosciuti) che sono, in ogni caso, nella cultura e nella morale
collettive; quindi in una sorta di distintiva caratteristica della
gente dell’Isola. Parlo di “Sicilia. La fabbrica del mito” (edizione
Longanesi, marzo 2013).
A lettura immediata, il titolo fa pensare alla mitologia greca e
latina, ma poi il sostantivo “fabbrica” frena non poco perché,
nonostante l’etimo latino, ci dà l’idea della contemporaneità; del non
classico in senso assoluto. Ma anche la copertina, che riproduce una
foto di Jill Enfield, allontana dalla classicità pura con quel suo mare
d’opale. Difatti la mitologia classica è marginale. Non dobbiamo quindi
aspettarci alcuna mitica cosmogonia, né racconti su dei e supereroi; o
su divinità e esseri umani (su e giù da qui) che nascono da strani
accoppiamenti (con fiumi, mari, oceani, fiori, uomini…) o da altre
straordinarietà (come Minerva che salta fuori, già adulta e armata,
dalla testa di Giove in preda al dolore che Vulcano gli fende con
l’ascia per lenirglielo su ordine del padre degli dei).
Ci racconta però, Collura, del mito di Proserpina e della sua patria
terra, dove – a richiamare Paul Luis Courier – «il diavolo ha preso
moglie». Citazione non proprio peregrina se si pensa (uno dei tanti
riferimenti letterari alla misoginia) al povero arcidiavolo Belfagor di
Machiavelli che va sulla terra per prendere moglie; ma a suo danno,
perché la donna è più esperta in diavolerie. E in Sicilia, dove tutto
si amplifica e si colora di mito, «la presenza femminile ha qualcosa di
ossessivo» rileva l’Autore della “Fabbrica”; per cui la donna è «un
idolo di cui diffidare tranne che per la madre»: «Madri, affetto di
madre, dolore di madre, non si fa che parlare di questo in Sicilia»; e
ne rafforza il concetto (lo Scrittore agrigentino) con un’affermazione
di Dominique Fernandez degli anni Sessanta: «La Madre Mediterranea non
dà ai suoi figli la forza (la voglia) di sfuggire alla sua influenza»;
la quale Collura considera sempre attuale: «Sono ancora le madri a
segnare, specie in ambito popolare, il destino dei propri figli».
Quindi calzanti esempi: dal bandito Giuliano, mito smitizzato
(«bugiardo») ma «“figlio di mamma”»(Fernandez), al poeta dialettale
Ignazio Buttitta «tormentato da una mancanza di amore materno che lo ha
reso orfano e ossesso» (Pier Paolo Pasolini), passando dall’attualità
attraverso «“C’è posta per te”» della De Filippi, «patetico spettacolo»
che dà l’«idea di quanto la mamma sia tenuta in considerazione in
Italia, e specialmente in Sicilia»; e avendo come culmine d’esempio la
madre per eccellenza: la Madonna, «“Mater Dolorosa”», che, nel Venerdì
Santo siciliano, «emoziona di più, perché Lei è condannata a
sopravvivere all’assassinio del Figlio; e perché [forse un po’
iperbolica la sottolineatura di Collura] Lei chiede vendetta o perdono
(e in questo caso il perdonare è un atto talmente sconvolgente da
esprimere un dramma maggiore della vendetta).»
Miti allora della realtà (non importa se di buono o cattivo esempio)
favoleggiata (d’altronde mito significa racconto fantastico
idealizzato) – già anticipato sopra – della storia e della cronaca
contemporanee che si affacciano anche al Settecento, come nel
caso del Conte Cagliostro, al secolo Giuseppe Balsamo
(palermitano di “Ballarò”), «grande esempio di falsità assoluta»
(Thomas Carlyle). Quindi mito negativo, quest’ultimo, come quello di
Giuliano e della mafia (molto più pericoloso) che si può anche
combattere e «vincere», ma che è difficile sconfiggere perché erede di
una «mentalità mafiosa», impressa in una «cultura millenaria».
In questo favoleggiare del reale negativo, tinto d’arcano, è esemplare
la vicenda dei monaci «mafiosi» di Mazzarino (CL), “francescani” che,
sotto l’ascetica barba, nascondevano una vita delinquenziale di ricatto
e di estorsione, la quale culminò nel delitto di un benestante.
E le storie, rivestite di mistero e di favola, sono tante: da Genco
Russo che Collura sveste dell’aureola mitica assieme ad altri capi
storici della mafia, miseramente ridicoli quando la caccia giudiziaria
li stana nei loro covili, dove sono costretti a vivere come talpe,
circondati da pizzini e santini, a Ippolito Nievo, lo scrittore
garibaldino autore delle “Confessioni di un italiano”, morto nel mare
di Gaeta per un complotto che doveva impedirgli di portare a
destinazione delle carte, le quali avrebbero svelato il mistero della
spedizione dei Mille; a Enrico Mattei, anch’egli vittima «predestinata»
come si evince chiaramente nel medesimo capitolo, dove emerge la tesi
che «specie dall’armistizio di Cassibile in poi» bisogna «diffidare
delle versioni ufficiali degli avvenimenti» perché «Da Salvatore
Giuliano a Michele Sindona è tutto un susseguirsi d’intrighi che fanno
della Sicilia il luogo ideale dove nascondere verità che, se divulgate,
farebbero deviare il corso della storia»; ad Ettore Majorana, lo
scienziato che per Sciascia, ma nelle parole di Collura, «nega la
propria scienza»; si ribella ad essa, quindi un mito «ora sfregiato da
una sospetta adesione ideologica dello scienziato siciliano al nazismo
e alle perversioni antiebraiche» (Collura).
Fra questi “intrighi”, non siciliani ma a danno di un siciliano, la
triste fine di Vincenzo Bellini, donnaiolo seduttore, il quale muore a
Parigi, derubato e abbandonato dalla coppia Levy-Oliver che pare avesse
allettato il musicista catanese con un “ménage à trois”.
In questa Sicilia del “silenzio” e dell’“enigma”, che fabbrica miti a
sua misura, ancora due vicende eccentriche e bizzarre: quelle di due
tipi singolari (il barone Pisani, direttore della Real Casa dei Matti,
e il principe di Palagonia che si circondò di mostri pietrificati), i
quali forse si conobbero e «forse si saranno trovati d’accordo
nell’evocare i mostri che può generare la ragione».
Questo cappuccio di miti, misteri ed arcani sulla “verità effettuale
della cosa”, ha però una sua forza narrativa nel secondo capitolo del
libro, dove un fatto reale: “‘a fuitina” (la fuga di due ragazzi che
scappano dalle rispettive famiglie per amore) viene raccontato
attraverso il ratto di Proserpina, mito “vero” perché classico, «che
nessun progresso potrà cancellare».
Al mito della Kore, che viene strappata alla madre Cerere nelle
campagne ennesi da Plutone (da cui si origineranno le stagioni,
ritornando la fanciulla sulla terra nei sei mesi del bel tempo) viene
quindi ricondotta la pratica della scappatella amorosa, la quale si
concludeva con la pacificazione (a volte travagliata) coi genitori e il
felice matrimonio quando (se minorenni) si raggiungeva la maggiore età.
Ma c’è nella “fuitina” una sgradevole aggiunta (che poi si attaglia di
più al dio degli Inferi): il rapimento (dissenziente la ragazza) con
stupro per strappare il matrimonio riparatore (protetto dalla legge!)
alla povera infelice. L’abominevole pratica violenta cessò con la legge
66/96 che punisce il reato di violenza sessuale. A monte della legge il
“caso” Franca Viola, la giovine sedicenne di Alcamo stuprata da Filippo
Melodia, il quale (1965) l’aveva rapita assieme ad altri dodici
facinorosi.
E tante e tante altre storie ed esempi ancora nei vari capitoli a
rendere più gradevole e completo l’intreccio del libro, come
l’accattivante “fuitina” di Elio Vittorini e Rosa Quasimodo (sorella
del poeta Salvatore), raccontata però autonomamente nel terzo capitolo.
Con la pazienza dei «mie» quattro «lettori», vorrei fare infine due
considerazioni come pista alla chiusa del mio scrittarello: la prima
sull’“incipit” filosofico pascaliano («Non so chi mi abbia messo al
mondo», «quegli spaventosi spazi dell’universo» e «senza sapere perché
sono collocato qui piuttosto che altrove») il quale – assorbendo il
dubbio cartesiano, l’esistenzialismo religioso e ateo (da Kierkegaard a
Sartre) e le riconsiderazioni di Leonardo Sciascia (e il tutto
intensamente rappreso nell’«involontario soggiorno sulla terra» di
Luigi Pirandello) – conduce l’Autore al suo«personalissimo “aleph”»;
vale a dire ai suoi luoghi d’origine mai dimenticati e sempre
amorevolmente coltivati; la seconda (di matrice letteraria) sul
ritrovamento di questi “luoghi” (lievito della sua ultima Opera) una
recente notte mentre, affacciandosi «al balcone di un albergo della Val
Pusteria», osservava «il brillio» di stelle «al di sopra del merletto
dei monti». Ecco, in quest’affacciarsi, tanta letteratura fra la
seconda metà del Settecento e quella dell’Ottocento: da Goethe e i suoi
emuli («mi affaccio alla finestra e vedo ancora alcune rade stelle»
[Werther]; da cui il quasi copia incolla del Monti in “Pensieri
d’amore”: ’Alta è la notte…’, i richiami foscoliani dell’“Ortis” e
leopardiani delle “Ricordanze”, dove però le “stelle” (per i due sommi
poeti) brillano a tutto cielo, pur essendo entrambi di animo
romanticamente inquieto, a Verga delle dissolvenze (oggi
cinematografiche) ambientali (la fiamma scoppiettante del caminetto
milanese, nella novella “Nedda”, cede luogo a quella «gigantesca»
del «focolare della fattoria del Pino, alle falde dell’Etna»,
dove racconta delle raccoglitrici di ulive). Così Collura,
affacciandosi al balcone, in una dissolvenza incrociata non totale
(stelle e monti infatti non spariscono, anzi l’Autore ne interroga gli
astri), rivede la sua Sicilia e ritrova il suo “aleph”, ma con
l’assoluto distacco dello scrittore che non cede al «rimpianto» e alla
«nostalgia».
Lo Scrittore pensa così alla sua Sicilia non bella di quest’inizio
d’anno (fra pericolo di bancarotta e tentativo di chiamare in giudizio
il capo dello Stato per presunte coperture mafiose) e cerca di
interrogarla, interpretarla e capirla; e stavolta non solo attraverso
le sue tante contraddizioni, i suoi misteri ed arcani, ma attraverso la
sua facilità di ricorrere al mito anche quando lo fabbrica “bugiardo” e
dannoso.
Il mito in tutte le sue sfaccettature, nei pregi e nei difetti, da
tempi remoti ad oggi, ha rivestito di fascino e di suggestioni
venerabili isolani e forestieri, forse perché quest’«isola non
abbastanza isola» (è il caso di dire con Giuseppe Antonio Borgese) è
legata al Continente da un «breve braccio di mare». Ma non sarà così a
lungo perché un giorno quest’isola “senza ponte” avrà il suo ponte e
allora finirà di essere «fabbrica del mito», di ingigantire racconti e
di favoleggiarli, cesserà di essere l’“ombelico del mondo” ed entrerà
in «Europa a pieno titolo»; deve però (condizione necessaria per
l’Autore) portarsi dietro il suo fascino misterico e l’aura mitologica
purificata da tutte le mistificazioni.
Questa sua ultima Sicilia, il concittadino di Pirandello la ridiscute
rivisitando nomi, personaggi e luoghi già discussi (in particolare
nelle opere “In Sicilia” [2004] e “Sicilia senza ponte” [2007], targate
Longanesi); sempre confrontandosi coi maggiori letterati conterranei:
quelli citati e quelli che mi sono rimasti nei tasti per istantaneità
di scrittura, ma, in ogni caso, assorbiti. E, in tutto questo suo
raccontare, la lingua di Collura è sempre stata fluida, limpida e
corretta; a smentire certi scherzi dei nuovi refusi telematici che di
rado si sono arbitrariamente inseriti.
Pino Pesce
(dal periodico l’Alba, www.lalba.info)