A quasi
quarant'anni dalla scomparsa di Pasolini, a più di venti da quella di
Sciascia, ormai è perfino opinione comune che, con loro, siano
scomparse la figura e la funzione dell'uomo-contro, dell'intellettuale
anticonformista, fonte di dubbi e provocazioni, di congetture e
confutazioni.
Due vite, le loro, e due filosofie del tutto diverse; eppure accomunate
da una profonda sintonia, a partire dalla remota recensione pasoliniana
alle Parrocchie sciasciane, fino alle "lucciole" di Pasolini evocate da
Sciascia nell'Affaire Moro. Ma è un fatto che di Pasolini si torna, e
non da ora, a parlare; di più: se ne celebra il culto, soprattutto (e
lo constato, da docente, con soddisfazione) tra i giovani che ne fanno
un'icona del dissenso, del disagio, dell'azzardo.
Di Sciascia no. Sciascia è rimosso, nemmeno più - come fino a pochi
anni fa - vituperato. Troppo rigoroso e impervio, troppo scomodo o
comunque inattingibile, il suo rovello intellettuale. Troppo estraneo
alla logica degli schieramenti, e troppo remoto da questi schieramenti:
non c'è dubbio che oggi Sciascia avrebbe assai agevolmente dimostrato
la mediocrità, il vuoto intellettuale delle cento intercambiabili
comparse del caravanserraglio politico-televisivo.
Non solo. Azzarderei pure, senza che questa congettura comporti una
svalutazione del magistero e della testimonianza pasoliniani, che è più
facile, per l'Italietta di oggi, perdonare le provocazioni di Pasolini
che quelle di Sciascia. Lo scrittore siciliano ha anche il torto di
concedere ben poco al sentimento, di esigere troppo sul piano della
ragione e dell'etica, al contrario dell'intellettuale-poeta Pasolini,
profeta accorato e visionario, "commediante e martire", vittima
sacrificale. Pasolini, malgré lui, e cioè per motivi più attinenti alla
sua biografia che alla sua riflessione, autorizza l'hypocrite lecteur
alla compassione, che è un italico e cattolico approccio che poco ha a
che fare con la conoscenza.
E non è finita: troppo lontano intellettualmente, Sciascia, anche se
moralmente assai vicino, rispetto al "religioso errore" pasoliniano,
alle contraddizioni e alle compromissioni pasoliniane con scorie e
residuati ideologici (marxismo, populismo, terzomondismo) degli anni
Cinquanta e Sessanta.
E ancora: può essere utile, a marcare la differenza fra questi due
grandi testimoni del nostro tempo, far ricorso a categorie teologiche,
giacché si sa, è delle cose ultime che la grande letteratura tratta, ma
secondo due diversi approcci ravvisabili a mio avviso in Sciascia e in
Pasolini e che potremmo definire, rispettivamente, profetico e
apocalittico. Cito per l'appunto un teologo: «i profeti predicevano un
futuro che sarebbe sorto dal presente, mentre gli apocalittici
predicevano un futuro che avrebbe fatto irruzione nel presente»: e non
è il primo il caso delle lucide profezie sciasciane, sull'evolversi del
fenomeno mafioso come sul "contesto" politico-affaristico-criminale,
sul compromesso storico o sul "professionismo dell'antimafia", e il
secondo del Pasolini più visionario, più incline da una parte al
miraggio dell'utopia, fosse quella delle lucciole contadine o quella
d'una «vita proletaria a te - lo diceva a Gramsci - anteriore», e
dall'altra alla cupa disperazione di Salò, di Petrolio, dello scandalo
cercato della sua stessa morte?
Ma non è il caso d'insistere sulle differenze, ora che un presente
troppo difforme dalla lezione di moralità e di stile di Leonardo
Sciascia e di Pier Paolo Pasolini le cancella affiancandoli - e
distanziandoli - in una sbiadita icona. Infatti, se è di Pasolini o di
Sciascia che occorre trattare, insomma di uomini liberi, disincantati e
irriverenti, in costante e inappagata ricerca, ecco che gazzettieri e
accademici sono pronti a sfoderare una parola-chiave che, fingendo
d'alludere significativamente, sottrae all'impegno di dire alcunché:
questa parola è "moralismo".
Pronunciarla equivale sempre più a una sorta di farisaico, e
liberatorio, scarico di coscienza. E serve, infatti, a isolare tutt'al
più un caso individuale, irripetibile, una meditazione solitaria e
arcigna, al limite fastidiosamente intimidatoria: un'icona laica da
venerare da lungi, non certo da imitare. Invece è venuto il momento di
ricostruire un mondo, una galassia intellettuale, una rete di "sentieri
interrotti" intorno a quei casi apparentemente isolati: a Pasolini e a
Sciascia, ma anche - per dire d'altri - a Borgese e a Brancati, ai
cosiddetti "moralisti" della "Voce" e a quelli riuniti intorno a
Gobetti, e ancora a Savinio o a "marziani" come Flaiano o a "corpi
celesti" come la Ortese, magari frettolosamente archiviati sotto
l'insegna altrettanto risibile di "irregolari", cioè di estranei
rispetto all'ortodossia letteraria canonizzata dai vincitori.
È venuto il momento, insomma, di ricostruire nella sua straordinaria
varietà una cultura penalizzata dalle grandi ideologie totalizzanti,
quelle che hanno soffocato e cruentato il Novecento e contro le quali
(fascismo, comunismo, clericalismo) quei "moralisti" coerentemente e
assiduamente polemizzarono, dalle quali quegli "irregolari" nettamente
e consapevolmente si estraniarono.
prof. Antonio Di Grado