Bisacquino,
atto primo.
Tutto cominciò con una lettera. Quella lettera, giunta dalla favolosa
Los Angeles «in una casa di pietra e calce aggrappata con le unghie
alla roccia nel villaggio di Bisacquino, in Sicilia», strappò una
famigliola contadina agli stenti patiti nel cuore assolato e desolato
dell’isola, della Sicilia centro-occidentale del latifondo, della
miniera, della mafia. E così, il 18 maggio 1903, quei “vinti”
verghiani, quelle “ostriche” aggrappate allo “scoglio”, si sradicarono
anche loro, anche loro come tanti veleggiarono verso l’Eldorado del
benessere generalizzato e del successo a portata di mano.
E a uno dei più piccoli, il narratore di quest’ordinaria odissea,
toccò addirittura, al culmine d’un nuovo calvario di stenti e fatiche,
di sfondare a Hollywood come regista; non solo: d’inventare, lui
immigrato e da sì remote plaghe, il mito dell’America, l’american
dream ottimista e rooseveltiano dell’uomo comune che ottiene giustizia
e successo in grazia dei suoi meriti e dei suoi diritti.
Già: è del grande Frank Capra che stiamo parlando, anzi di Capra
Francesco da Bisacquino: l’autore di La vita è meravigliosa e di Mr.
Smith va a Washington, di Accadde una notte e di Arsenico e vecchi
merletti, il padre degli anti-eroi candidi e fiduciosi incarnati da
James Stewart e Gary Cooper, controfigure di Jeli il pastore e di
Alessi Malavoglia imbevute di linfa puritana, e vendicate del loro
destino di “vinti” grazie al New Deal e all’american way of life.
Sempre a Bisacquino, atto secondo.
Sempre da Bisacquino, attratta dalla medesima chimera, era partita per
New York la famiglia Lombino. E nella metropoli era nato Salvatore, che
alle sue tentacolari insidie e ai suoi bassifondi criminosi decise di
dedicare la sua precoce vocazione di scrittore. Ma ve l’immaginate un
autore di gialli, da qui a poco autore della serie poliziesca più
fortunata al mondo, che si firma Salvatore Lombino? Con quel nome non
avrebbe certo fatto strada, perciò lo cambiò inizialmente in Evan
Hunter (e pubblicò Il seme della violenza, poi in parecchi altri. Ma
uno fu il nome che lo consacrò nell’Olimpo del giallo, anzi dell’hard
boiled d’oltreoceano: e Salvatore Lombino fu Ed McBain.
Già, proprio il grande McBain, l’inventore dell’87° Distretto (una
cinquantina di romanzi in quarant’anni). E come lui siciliano d’origine
è il detective Steve Carella che opera in quel distretto di polizia.
Insomma, l’inventore del cinema americano del New Deal e quello del
poliziesco newyorkese provenivano entrambi dallo stesso borgo isolano;
ma ancor più sorprendente, per me che l’ignoravo, mi è giunta la terza
notizia, l’ultima tessera di questo mosaico italo-americano. Dinanzi al
quale saremo costretti a dire che i siciliani in America hanno
inventato i tre linguaggi che l’America (almeno così credevamo) ha
consegnato al Novecento per capirsi e riscriversi: il cinema, il giallo
e – udite udite! – il jazz.
Salaparuta, atto terzo.
Salvatore Mugno è un instancabile e geniale poligrafo. Ha scritto di
tutto: romanzi e saggi, traduzioni e inchieste: tra l’altro, un
romanzo-saggio misto di storia e d’invenzione, ma solidamente ancorato
a un dato reale, dichiarato fin nel titolo: Il biografo di Nick La
Rocca; sottotitolo: Come entrare nelle storie del jazz.
Ebbene: NickLa Rocca– il cui padre Girolamo, bersagliere e componente
della banda municipale, nel 1876 aveva lasciato la sua Salaparuta per
la mitica New Orleans – si proclamò “inventore del jazz”; e fu
effettivamente il leader della leggendaria Original Dixieland Jazz Band
di New Orleans che prima al mondo, nel febbraio del 1917, incise un
disco di musica jazz.
Ancora un siciliano, dunque. Mugno ne scrive mescolando documenti
storici inediti con invenzioni narrative, e la vita del cornettista
spaccone figlio del ciabattino-trombettiere con quella d’un suo
biografo tanto accanito quanto frustrato, irriso, smentito. Un libro da
leggere: chiuso il quale (e chiusa questa mia frettolosa recensione)
può avvenire di chiedersi: e se Faulkner fosse nato a Partinico?
Prof. Antonio Di Grado