I
nostri ragazzi conoscono i meccanismi e la forza del web, ma non sanno
valutare le conseguenze delle proprie azioni. Occorre una nuova
educazione civica. Che però sa di vecchia materia scolastica. Meglio
chiamarla educazione digitale. La Polizia postale lancia un programma
che prevede lezioni sistematiche nelle scuole. Buona idea.
I ragazzi creano una pagina Facebook dove coprono d’insulti
un’insegnante. Lei lo scopre e denuncia il fatto. La Polizia postale
identifica gli autori, tutti minorenni. Le famiglie sono sbalordite:
quante storie! Non la insultavano davvero, era solo su internet!
È una piccola storia istruttiva, diffusa e preoccupante. Molti adulti
sanno cos’è la vita e non hanno capito cos’è la Rete; tanti ragazzi,
viceversa. Conoscono i meccanismi e la forza del web, ma non sanno
valutare le conseguenze delle proprie azioni. Diffamazione, molestie,
ingiurie, minacce, stalking: sono vocaboli da codice penale, a sedici
anni sembrano distanti. Occorre una nuova educazione civica: e potrebbe
funzionare, a patto di non chiamarla così. “educazione civica”, sa di
materia vecchia, di professori annoiati, di stanchezza all’ultima ora:
un tema importante demolito dalla pessima didattica. Educazione
digitale? Meglio. Programma: come guidare un mezzo veloce, nuovo e
magnifico, senza andare a sbattere. I social network – e la banda larga
che li ha resi potenti – hanno pochi anni. Tutti stiamo imparando
tutto. Perché è importante lavorare sui ragazzi? Perché riporre le
speranze sugli adulti, spesso, è tempo perso. Un cinquantenne non può
non sapere che scrivere. “Ti sparo!” – su un muro, in una lettera, in
un sms dentro un blog, su twitter – è una minaccia. Se lo scrive – e
molti lo fanno – è imperdonabile. Un quindicenne, spesso, non se ne
rende conto. “Ti sparo” sembra una battuta tra amici. Ma quelle due
parole – quando sono scritte, inoltrate, diffuse – smettono d’essere
uno scherzo. In Rete non si sente il tono della voce, non si vedono le
espressioni del viso, non si conosce il contesto. “Ti sparo” è una
minaccia.
La Polizia postale sta lanciando un programma in materia, che prevede
sistematiche nelle scuole italiane. Buona idea. Le scuole hanno bisogno
di aiuto, perché pochi insegnanti possiedono le conoscenze tecniche e
giuridiche per affrontare certi temi. Non è una colpa. Chi insegna
greco da trent’anni non deve, per forza, sapere cos’è un retweet; chi
sa di biologia non è obbligato a conoscere le norme sullo stalking. Gli
stessi ragazzi, se coinvolti nel modo giusto, saranno di grande aiuto.
Potranno insegnare agli insegnanti, a aiutarsi tra loro. Da novembre ho
visitato venti scuole superiori: da Vicenza a Siracusa, da Modena a
Foggia, da Milano a Roma. A Nuoro ho incontrato, per la terza volta in
cinque anni, i ragazzi del liceo “Asproni”. Ho scoperto poi che alcuni
avevano messo in Rete una lista di compagni gay, con nomi cognomi e
presunti intrecci sessuali. Conosco la città e la scuola; voglio
pensare che si sia trattato di una scemenza dovuta all’incoscienza. È
quell’incoscienza che dobbiamo combattere: provoca guai quanto la
malizia.
Spesso, quando parliamo di “sicurezza sul web”, pensiamo a come
proteggere i ragazzi dalla Rete: gruppi estremisti, fanatici, sette,
adescatori, pedopornografia e altre cose immonde. Non sempre ricordiamo
che le vittime, in qualche caso, possono diventare carnefici. Un
sedicenne che diffama metodicamente un compagno, o mette in Rete foto
intime di una compagna di classe, può fare molto male. Il progetto “It
gets better” (www.itgetsbetter.org), cui il Corriere aderisce, intende
combattere questi fenomeni. “Cyberbullismo” è un termine vago e
pericoloso: parola di moda, per qualcuno funziona come un invito.
Crudeltà e idiozia sono vocaboli più efficaci. Molestie e diffamazione
sono fattispecie precise: stanno, ripeto, nella legge penale. Bisogna
convincere i ragazzi che la vita cvera è dovunque: in Rete e fuori
dalla Rete, uguale e diversa (su Internet è facile trovarsi e
impossibile baciarsi, per esempio). Leggete la sezione “Commenti” su
qualsiasi blog: capirete che molti adulti non hanno capito come le
persone siano le stesse, la società la stessa, la vita la stessa. E
vomitano insulti, cattiverie, illazioni gravi. La presenza di
provocatori e di molestatori è inevitabile? Eric Schmidt, presidente di
Google, ha detto: “Facciamocene una ragione: l’uno per cento della
popolazione è pazzo. Ha vissuto nel seminterrato per anni, e la mamma
gli portava ogni giorno da mangiare. Due anni fa la mamma gli ha
regalato la connessione e la banda larga”. Ecco: questi personaggi ci
saranno sempre, in America come in Italia. Noi dobbiamo salvare tutti
gli altri, il restante novantanove per cento, i ragazzi normali con
alcune idee confuse.
Impossibile, sostiene qualcuno: la combinazione di supertecnologia e
scarsa coscienza produrrà disastri sempre più grandi! Bè, noi dobbiamo
fare in mdo che non sia così. Tutto cambia non necessariamente in
peggio. È un mondo complicato, attraversato da una terribile bellezza.
Se li aiutiamo, i nostri ragazzi capiranno come viverci. E lo
spiegheranno anche a noi.
Beppe
Severgnini - Corriere della Sera