Immaginate di venire
a sapere che l’autista dell’autobus, il macchinista del treno della
metropolitana o del FrecciaRossa, il pilota dell’aereo su cui state
viaggiando, abbia conseguito la patente senza esami e prove pratiche di
guida, ma solo con l’esame scritto fatto con una serie di test a
risposta multipla e di qualche sessione su un simulatore di guida come
quelli che trovate nelle sale giochi. Immaginate di venire a conoscenza
del fatto che su quell’autobus, quei treni, quell’aereo non sono stati
effettuati dei crash test prima di abilitarli al servizio, e che la
garanzia della loro tenuta sia stata ottenuta solo con delle proiezioni
computerizzate.
Immaginate di andare a protestare dai dirigenti della rete di trasporto
pubblico, dall’amministratore delegato delle ferrovie, dal presidente
del consiglio di amministrazione della compagnia aerea, e di sentirvi
rispondere che “è così in tutta l’Europa”; che avete ragione, ma “non è
il momento di farci dei nemici, bisogna invece farsi furbi”; o che la
vostra contrarietà a questi criteri di selezione e misurazione dimostra
che “siete difensori di privilegi anacronistici, nemici delle norme di
sicurezza e nostalgici del passato”.
Affidereste il futuro vostro e dei vostri cari a questi mezzi, questi
conducenti, a questo sistema di trasporto?
Eppure il futuro del paese, o almeno quella rilevante porzione di
futuro che dipende dall’esistenza di una buona scuola,
dall’acquisizione di una buona istruzione, dalla capacità di interagire
con il mondo e con gli altri attraverso un sapere adeguato e
flessibile: questo futuro, che è quello delle prossime generazioni, è
nelle stesse condizioni di quei guidatori e di quei mezzi di trasporto.
“Perché ce lo chiede l’Europa”, ci viene detto: come se l’Italia non
fosse parte integrante di questa Europa, non avesse voce in capitolo,
non partecipasse ai momenti decisionali.
Da alcuni anni – dal 1990, per fissare un punto d’inizio – i sistemi
scolastici sono invasi da un’ansia, un’ossessione compulsiva, una
coazione inderogabile alla misurazione. “Misurazione”, non
“valutazione”: siamo tutti donne e uomini di scuola, e l’esattezza
delle parole è importanti. Se prendo un Piano dell’Offerta Formativa,
uno qualunque, trovo scritto che «Valutare non significa solo misurare
i livelli raggiunti nelle singole prove orali, scritte e pratiche, ma
considerare l’acquisizione di un metodo di lavoro adeguato agli
obiettivi prefissati, i progressi compiuti, il livello delle capacità
possedute rapportate alle operazioni cognitive richieste, la qualità
delle conoscenze e delle competenze acquisite. Alla valutazione finale
concorrono anche l’interesse, l’impegno, la motivazione e il
coinvolgimento nel lavoro educativo». Dove non si ha la possibilità, o
la volontà, o l’interesse, a considerare questi criteri c’è una mera
rilevazione, al più una misurazione, non una valutazione.
Dicevamo: è dal 1990 che prende l’avvia quest’ansia misuratrice. Dal
rapporto Istruzione e competenza in Europa dell’ERT (European Round
Table of Industrialists), potente lobby industriale decisa a lanciarsi
nel mercato dell’insegnamento. In questo rapporto si afferma che
«l’istruzione e la formazione sono considerate come investimenti
strategici vitali per il futuro successo dell’impresa», e si deplora il
fatto che che «l’industria ha soltanto una modestissima influenza sui
programmi didattici». Tre anni dopo, nel Libro verde sulla dimensione
europea dell’educazione redatto dalla Commissione Europea si asseriva
la necessità di formare delle «risorse umane per i bisogni esclusivi
dell’industria» e favorire «una maggiore adattabilità di comportamento
in maniera da rispondere alla domanda del mercato della manodopera» sin
dalla scuola materna: gli studenti diventano «clienti» o «capitale
umano», i corsi «prodotti» o «mercato del lavoro», le famiglie
«utenza». Quanto agli insegnanti, un documento OCSE del 1996 li
definisce «coloro che non costituiranno mai un mercato redditizio, e la
cui esclusione dalla società in generale si accentuerà nella misura in
cui gli altri continueranno a progredire»: in un mercato mondiale della
formazione reso possibile dalle nuove tecnologie, «l’apprendimento a
vita non può fondarsi sulla presenza permanente di insegnanti», ma
dev’essere assicurato da «prestatori di servizi educativi».
Questi documenti sono, per così dire, l’inizio del processo evolutivo
della scuola, di cui oggi vediamo gli esiti. Ma, com’è noto, è sempre
l’anatomia dell’uomo che spiega quella della scimmia – con la
trascurabile eccezione di qualche testardo creazionista –, e non il
contrario. L’anatomia dell’oggi ci parla di superamento di test a
scelta multipla come strumenti di valutazione: test che premiano «una
forma peculiare di intelligenza analitica, apprezzato dai gestori e
dalle imprese del settore finanziario che non vogliono che dipendenti
pongano domande scomode o verifichino le strutture e gli assiomi
esistenti: vogliono che essi servano il sistema. Questi test creano
uomini e donne che sanno leggere e far di conto quanto basta per
occupare posti di lavoro relativi a funzioni e servizi elementari. I
test esaltano quelli che hanno i mezzi finanziari per prepararsi ad
essi, premiano quelli che rispettano le regole, memorizzano le formule
e mostrano deferenza all’autorità. I ribelli, gli artisti, i pensatori
indipendenti, gli eccentrici e gli iconoclasti – quelli che pensano con
la propria testa – sono estirpati». Queste parole sono di Chris Hedges
[potete cliccare sul nome se volete leggerlo per intero], un
giornalista che dopo aver raccontato la guerra in Irak, è tornato in
patria per raccontare un’altrettanto drammatica guerra: quella che il
governo statunitense sta conducendo contro il diritto all’istruzione.
La critica di Chris Hedges, accanto a quelle condotte in Gran Bretagna,
Francia, Finlandia sulle derive cui hanno condotto l’adozione dei test
di valutazione come criteri didattici, ci dicono che il frame del “non
possiamo essere gli unici in Europa” è, oltre che logicamente
scorretto, falso: in realtà stiamo adottando la mela bacata che altri
paesi cominciano a rifiutare, e che nondimeno ci viene offerta. Fare
una torta per riciclare le mele che stanno andando a male può essere
indice di parsimonia: offrirla agli ospiti è senz’altro segno di scarso
rispetto.
Ancora uno sguardo sull’anatomia della scuola dei test. È capitato due
anni fa – lo abbiamo raccontato io e il collega Matteo Vescovi – che
gli studenti abbiano dovuto rispondere a dei quiz predisposti
dall’Invalsi su un racconto di Mario Rigoni Stern [cliccando su "Rigoni
Stern" potete leggere l'analisi integrale]. E che quei quiz fossero
errati, talora in modo grave. È grave che alla domanda sulle intenzioni
dell’autore sia indicata come errata la risposta “Dichiarare
apertamente la sua avversione alla guerra ed esortare i giovani ad
evitarla”. È altrettanto grave che gli studenti siano stati obbligati a
scegliere una tra le quattro diverse interpretazioni possibili del
testo, come se le altre tre non fossero state – e lo erano –
altrettanto plausibili: come se un grande scrittore non sia tale
proprio per la sua capacità di comunicare non una sola, ma più cose
all’interno del proprio testo. Come se non fosse compito della scuola
insegnare a comprendere che ci sono diverse prospettive, punti di
vista, interpretazioni di uno stesso oggetto. Come è possibile che
accada una cosa del genere? Succede così: qualche oscuro tecnocrate
esterno alla scuola prepara un test di rilevazione, lo inserisce in una
busta che, sigillata, viene inviata alle scuole, nelle quali il
dirigente si limita a trasmettere detta busta ai “somministratori”, che
si consiglia dover essere docenti esterni tanto alla classe quanto alla
materia, e da questi nelle mani e nelle menti degli studenti, che
appongono sotto sorveglianza le loro debite crocette; questi test sono
poi restituiti ai correttori, che con l’ausilio di uno scanner (quando
va bene), o a mano conteggiano le risposte e trasmettono all’INVALSI
gli esiti, affinché il «gruppo di esperti» esterno alla scuola elabori
una misurazione (che viene spesso disinvoltamente spacciata, o confusa,
o scambiata per “valutazione”), che a sua volta viene di nuovo
trasmessa alle scuole. In nessuno di questi passaggi è attiva una
qualche intelligenza critica che, esaminando i testi delle prove, può
esercitare un legittimo diritto di interdizione fondato sul
riconoscimento del danno che queste prove causano a cose come
didattica, apprendimento, formazione, pensiero critico e altre
sciocchezze. Coloro che lavorano nella scuola come insegnanti o
dirigenti sono invitati a dismettere le proprie vesti e le proprie
intelligenze e rivestire per un giorno quelle del passacarte, del
burocrate cieco, sordo e muto al servizio di una macchina ottusa: come
personaggi kafkiani, sono misuratori, e dunque misurano.
E così, per obbedienza a un ordine o in ottemperanza a una direttiva,
accade che il sergente Mario Rigoni Stern, scampato alla guerra, alla
neve e ai lager nazisti sia impallinato dalla scuola italiana, senza
che alcuna delle persone coinvolte nella gestione dei diversi segmenti
del processo si sia senta responsabile dell’accaduto. Nel contempo in
alcune scuole si sostituiscono gli insegnanti somministratori in
sciopero, e si inquisiscono gli studenti che hanno sporcato di saliva
il codice a barre del test. Si può sputare sui diritti dei lavoratori e
su Mario Rigoni Stern, ma non sulla sacralità del codice a barre dei
test: questo è il messaggio educativo che passa ai nostri studenti.
Girolamo De Michele
“Estense. com”, Quotidiano online di
informazione, blog, Ferrara, 16 aprile 2013
Post scriptum: in periodo di crisi e di tagli alla scuola, si sappia
che i test di valutazione Invalsi sono costati, lo scorso anno, 8
milioni. E che il Direttore generale dell’Invalsi percepisce uno
stipendio annuo di € 152.886,93.
(Prima parte della relazione esposta poi in occasione della giornata di
studi sul tema “Quale valutazione per quale scuola?”, organizzata a
Ferrara dal Coordinamento delle scuole di Ferrara “La scuola è di
tutti” e dal Centro Studi per la Scuola Pubblica di Bologna, col
Patrocinio del Comune di Ferrara; 20/04/2013).