Intervista al creatore
del celebre framework open source Arduino, in Italia per una visita al
suo vecchio Istituto tecnico -Da Lugano a Desio, in Brianza, la
distanza non è certo abissale, ma l’accoglienza ricevuta l’altro ieri
da Massimo Banzi , da tempo per lavoro in Svizzera e di passaggio in
Italia per una visita () all’Iti “Enrico Fermi”, dove si è diplomato, è
stata simile a quella riservata a una star di Oltreoceano. Banzi, per i
pochi che non lo sapessero, è uno degli inventori della scheda e del
framework di programmazione open source Arduino, una piattaforma che
permette a chiunque abbia un minimo di conoscenze tecniche di
realizzare oggetti interattivi e “intelligenti”. L’invenzione, per la
facilità d’uso, l’approccio open, e il perfetto tempismo nell’inserirsi
in quella che è stata definita la “rivoluzione” degli artigiani
digitali, ha riscosso subito un grande successo, e Banzi, grazie anche
agli articoli di riviste di settore come Wired, è diventato un’icona
per gli aspiranti maker. Per La Stampa.it ha risposto ad alcune domande
sulla sua carriera, sul nuovo artigianato tecnologico e sull’evoluzione
di Arduino.
Benvenuto, Massimo, per cominciare, una curiosità: perché hai scelto di
vivere in Svizzera? Ti consideri anche tu un “cervello in fuga”?
Volevo andarmene dall’Italia per una serie di questioni personali,
perché non mi piaceva più l’idea di vivere qui e non ero d’accordo su
cosa stava succedendo e, a un certo punto, la mia capacità di impattare
sull’Italia era molto limitata perché appunto volevo andarmene. Poi è
arrivata l’offerta di insegnare a Lugano, dove avevo la possibilità di
sperimentare, e per me era importante il fatto di vivere in un posto
dove c’è una scuola che insegna quello che insegno io, che si chiama
Interaction Design. Ha funzionato bene. Poi ho cominciato a informarmi
e ho mi sono reso conto che la Svizzera è un Paese molto orientato
all’innovazione, che sostiene le aziende innovative. Ci sono dei piani
che permettono alle università di lavorare per le aziende supportate
dallo Stato per generare innovazione. Lì hanno un sistema ben
strutturato e ben documentato su Internet in cui, a un certo punto,
anni fa lo Stato ha deciso questo è il modo in cui noi promuoviamo
l’innovazione ed è tutto chiaramente documentato. Se tu vuoi fare un
progetto di ricerca supportato dalla Confederazione mandi un progetto,
che sono poche pagine A4, e nel giro di pochi giorni hai una risposta.
Sono dei livelli di efficienza, di semplicità normativa e soprattutto
di stabilità. Quindi se tu vuoi fare innovazione, se vuoi fare impresa
dormi sogni più tranquilli se sai che una volta che si è espresso il
Governo la cosa così è e non cambia. In Italia la nostra chiamiamola
“consociata”, a Torino, fa dei salti mortali per poter lavorare.
Per cui è chiaro che da un certo punto di vista è interessante vivere
in un posto che promuove molto l’innovazione, anche per capire quali
meccanismi sono esportabili in altri Paesi. Poi, io credo che ogni
Paese del mondo ha le sue caratteristiche, qualcosa da dare ed è per
questo che noi siamo sparsi in giro per il mondo.
Il tuo percorso lavorativo ti ha portato a viaggiare spesso per il
mondo. Com’è l’Italia dell’innovazione vista da fuori, e confrontata
con il panorama di altri Paesi?
Quando sei all’estero ti imbatti in un sacco di italiani innovativi.
Più o meno ovunque c’è un italiano che sta facendo una cosa assurda.
Credo che in giro per il modo siano abituati a vedere gli italiani che
portano il loro valore, mentre quando guardano all’Italia spesso in
alcuni posti ci si stupisce che ci siano aziende italiane innovative
perché all’estero il nostro Paese è visto come il posto della
tradizione. É una questione di percezione.
Come è cambiato Arduino rispetto all’idea originale che ne ha decretato
il successo? Dovendo tornare indietro, faresti tutto allo stesso modo,
o ci sono errori che magari avresti potuto evitare per promuovere
l’invenzione (e quali)?
Tutte le idee si evolvono nel tempo. All’inizio Arduino nasceva come
uno strumento creativo per studenti di design, poi quando ha iniziato a
essere usato al di fuori di questo ambito abbiamo cominciato a lavorare
per renderlo più universale. Nel percorso abbiamo visto l’evoluzione
del mondo maker per cui, assistendo a questa evoluzione, abbiamo anche
cambiato alcune cose che facevamo per abbracciare cose che fossero di
più di Arduino in quanto circuito elettronico. Abbiamo fondato spazi
fisici in Italia, in Svezia, in India, dove interagire con le comunità,
dove lavorare sulla fabbricazione digitale: sono tentativi di espandere
Arduino oltre il concetto originale. Io passo una buona quantità di
tempo ad analizzare le cose che abbiamo fatto nel passato per capire
come fare meglio perché chiaramente quello è il mio lavoro. Sì, avrei
potuto fare cento mila cose diverse, ma alla fine quello che abbiamo
fatto ha funzionato abbastanza bene. Per cui non sto troppo tempo a
pensare a cosa avrei potuto fare di meglio.
Si parla molto, anche qui da noi, di “rivoluzione dei maker”. Il
termine “rivoluzione” è un po’ una forzatura pubblicitaria o la
descrizione accurata di quanto sta accadendo?
Ogni movimento ha bisogno del suo marketing per potersi sviluppare. Non
la chiamerei una rivoluzione Copernicana, però sicuramente è un modo di
ripensare alcuni meccanismi che stanno dietro alla creazione di
prodotti, di servizi fatti da persone che magari non facevano parte di
questo mondo precedentemente, per cui portano dei punti di vista spesso
un po’ bizzarri spesso innovativi proprio perché arrivano da mondi che
non c’entrano con il modo in cui si sono fatte le cose finora. Nel
momento in cui prendi più campi e crei un’intersezione tra più
discipline o porti delle persone che non sanno niente di una disciplina
dentro quella disciplina si crea un cambiamento. Anche perché spesso
questi makers, siccome non sanno nulla di come si fa a produrre certe
cose, magari inventano metodi più semplici per produrre la stessa cosa
perché non sanno che si fa così. Oppure, proprio perché non hanno
studiato come si fa una certa cosa, non hanno dei preconcetti, per cui
fanno delle cose per cui un esperto di quel campo direbbe no, non ha
senso. Uno che banalmente non è esperto porta un punto di vista del
tutto fresco.
Quale pensi potrà essere l’impatto sulla società della diffusione della
possibilità di prodursi da soli oggetti con stampanti con 3d, e di
interagire con il cosiddetto Internet delle Cose?
Non credo che in maniera molto rapida ora tutti compreremo la stampante
3d come compriamo il frigo a casa. Però sicuramente questi meccanismi
lentamente evolveranno fino al punto in cui nelle città ci saranno,
così come ora ci sono le copisterie, i negozi che stampano le cose.
Oppure si ordineranno online e arriveranno a casa. Sicuramente queste
stampanti sempre più economiche serviranno a una categoria di persone
per innovare, per sperimentare, per provare. Da un altro punto di vista
anche l’Internet delle Cose è qualcosa che lentamente entrerà nelle
case delle persone senza magari essere chiamato l’Internet delle Cose.
Per esempio ora negli Stati Uniti c’è una punta avanzata di consumatori
che sostituisce il termostato del riscaldamento di casa con il
termostato “Nest”, che è un termostato progettato da un ex dirigente
della Apple, che si collega via wi-fi e ha tutta una serie di
intelligenze comandabili dal telefonino e via web. Quello è un esempio
di Internet delle Cose, ma la gente pensa semplicemente che quello è il
nuovo termostato. Alle persone di tutti i giorni non interessa il
concetto di Internet delle Cose, interessa che il prodotto gli risolva
un problema. Sul vostro sito avete una divertente sezione “hall
of shame”, dedicato ai copycat dei vostri prodotti. La contraffazione è
ovunque, ma il fatto di proporre un progetto open source ha in qualche
modo incentivato problemi di questo tipo? E come vi siete attrezzati
per fronteggiarli?
Arduino è open source. Questo vuol dire che chiunque può riprodurre la
parte software senza problemi. Ma il nome e il marchio sono registrati
ed è chiaramente indicato sulla scheda, sui files che si scaricano dal
sito e anche nel nostro sito. Per cui il problema non è il fatto che la
gente copi la scheda, quello era un po’ il desiderio, il problema è
quando la gente ti copia il nome e va in giro a dire che sono te. É
chiaro che se uno va su Ebay compra una scheda tarocca cinese, gli
arriva a casa e non gli funziona poi dice Arduino è un tarocco perché
non va. Il problema è quando si fa pensare che quel prodotto è quello
che non è.
Cosa ne pensi, in generale, della cosiddetta “pirateria”?
Io credo che in qualche maniera in tutti i momenti storici c’è stato
qualcosa che è stato “piratato”, cioè dei modelli di business che sono
stati come si dice in inglese “diswrapped”, che sono stati sconvolti e
poi alla fine si sono stabiliti altri modelli business che hanno
sostituito quelli vecchi. Sicuramente tutta l’industria legata al
copyright è in una condizione in cui il mondo sta evolvendo, queste
evoluzioni sono inevitabili, e invece di pensare a come adattarsi al
mondo che cambia investe tutte le loro energie per immaginarsi a come
fare a bloccare il cambiamento. Credo che alla fine ha senso educare le
persone più che usare i metodi polizieschi. Da un altro lato molte di
queste aziende forniscono dei prodotti che la gente percepisce come
troppo costosi per il valore che danno. Finché c’è questa percezione
probabilmente la gente si darà alla pirateria.
Venerdì a Torino c’è un grande evento dedicato al crowdfunding, Torino
Crowdfunding (di cui La Stampa è media partner). Cosa ne pensi di
questa modalità di finanziamento? Può dare un futuro a giovani con idee
brillanti come la tua?
Ogni tipo di idea imprenditoriale ha diverse fasi e ci sono diverse
tipologie di idee in diverse fasi, per cui si applicano diversi modelli
di finanziamento. Nel nostro caso, quando siamo partiti a fare Arduino,
i primi pezzi che abbiamo fabbricato per nostro uso personale li
abbiamo fatti investendo 700 euro. Il costo dell’investimento fisico
era talmente basso e in più il mercato era privo di concorrenti per cui
non c’era la paura che qualcuno ci superasse in curva. In questo caso
il self-funding ha funzionato, mentre per altre idee serve che una
comunità di persone credano in quell’idea. Poi, a parte alcuni esempi
eclatanti, risulta difficile che qualcuno con il crowfounding puro,
specialmente in Italia, porta a casa 20 milioni di dollari. Per quello
servono fondi d’investimento a diversi stadi. Poi spesso una start up
nella sua vita ha un primo angel all’inizio, poi ha un primo round di
finanziamento, poi c’ è un secondo round più ampio. Per cui a diversi
stadi della vita dell’idea imprenditoriale ci son diversi strumenti di
finanziamento.
Federico Guerrini
www.lastampa.it