Dal “Corriere
Della Sera” del 9 dicembre 2012 - Una settimana fa Pier Luigi Bersani
ha vinto le primarie del centrosinistra. I suoi elettori dicono che ha
fatto riscoprire la meritocrazia nella politica con le primarie del
centrosinistra dopo che per anni si è assistito al proliferare di
candidati scelti dai partiti (quando non personalmente dal padre
padrone) unicamente sulla base della fedeltà invece che sul merito
individuale. Adesso il suo compito è di creare una nuova sinistra per
cercare di vincere le elezioni e governare con successo.
lagana.filippo@email.it
Creare una nuova sinistra non richiede solo di «rottamare» alcuni dei
politici come vorrebbero in molti, ma anche alcune vecchie idee. La
prima, e forse la più importante, è stata la risposta data al
moderatore del dibattito di Sky tra i contendenti alle primarie che
chiedeva a Bersani se fosse «in favore di più meritocrazia». Al che il
segretario del Partito democratico ha risposto «va bene più
meritocrazia, ma anche più eguaglianza». Il che sottintende che la
competizione va bene per i vertici della politica e della economia, ma
se estesa alle masse dei lavoratori e degli studenti può portare, per
esempio, a licenziamenti di massa e alla perdita del «diritto allo
studio». Ne deriva che l’unico modo efficace per ridurre la
diseguaglianza è quello di ridistribuire la ricchezza dai ricchi ai
poveri.
Nulla di nuovo. Per la sinistra italiana la meritocrazia resta un
valore «di destra» e l’egalitarismo continua a restare il principio
fondante, contrariamente alle sinistre nordeuropee che da più di
vent’anni lo hanno fatto evolvere nella ricerca delle pari opportunità.
L’idea era semplice: se uno va avanti solo se è bravo e non perché è
furbo o raccomandato da qualcuno che gli deve un favore, la mobilità
sociale aumenta perché anche un povero meritevole può salire
sull’«ascensore sociale».
Questo sistema di valori è in realtà pienamente accettato dalla
sinistra italiana che ha lottato negli ultimi anni molto di più della
destra contro i privilegi anticoncorrenza e il non rispetto delle
regole. Eppure resta sospettosa quando l’idea della competizione spinta
viene estesa dall’élite alle masse. Questo avviene per due motivi.
Primo, «il bisogno»: il lavoratore che fa male il proprio lavoro
meriterebbe di essere licenziato ma «ha bisogno» del posto di lavoro
(per mantenere una moglie che non lavora e i figli precari); e quindi
resta l’articolo 18. Secondo: il «diritto acquisito»: il precario della
scuola ha acquisito il diritto al posto fisso e quindi è giusto opporsi
al primo concorso dopo 10 anni che lo mette in competizione con la
nuova generazione di insegnanti. È ovvio perché questi due motivi
valgono solo per le masse e non per il top: Matteo Renzi e Pier Luigi
Bersani non hanno né il «bisogno» né il «diritto» di diventare
presidenti del Consiglio e quindi si accetta una competizione accanita.
Ma non si accetta per milioni di lavoratori e studenti. E neanche
Matteo Renzi, che pure ha preso posizioni coraggiose e anche
controproducenti su pensioni e politica estera ha osato esprimersi
chiaramente a favore di una meritocrazia più diffusa su temi come il
lavoro e la scuola: ha dichiarato di voler adattare il giusto modello
della flexsecurity di Pietro Ichino (quasi scomunicato dal Partito
democratico) ma non ha parlato della meritocrazia individuale e,
relativamente alla scuola, ci si sarebbe aspettata più enfasi nel
sostenere l’esigenza di valutare gli insegnanti per migliorare la
qualità dell’insegnamento dove è meno buona.
Il problema è che la sinistra italiana non si rende conto che
rispettare i «bisogni» e i «diritti acquisiti» perpetua la spaventosa
ineguaglianza della società italiana che abbiamo già descritto nelle
pagine di questo quotidiano. Se non si può licenziare un lavoratore che
lavora male (proteggendolo con ammortizzatori sociali orientati a
reinserirlo rapidamente nel mondo del lavoro), aumenterà l’attuale
apartheid tra 12 milioni di lavoratori di fatto inamovibili a livello
individuale e 9 milioni licenziabili senza vincolo alcuno.
Se il «diritto allo studio» protegge insegnanti mediocri, ciò va a
scapito degli studenti con meno mezzi per i quali la scuola è la unica
vera chance di azzerare i privilegi della nascita; continuerà in Italia
la discriminazione tra gli studenti del Nord che hanno scuole di
livello europeo e quelli del sud che l’Ocse misura essere a livello
dell’Uruguay e della Thailandia. Se la sinistra da un lato lotta
giustamente contro la corruzione nella sanità, ma dall’altro protegge
indiscriminatamente chi ci lavora, in alcune regioni del Centro Sud con
sprechi assurdi, incompetenza e pessimo livello di servizio,
l’ineguaglianza della qualità del servizio sanitario pubblico tra
alcune regioni del Nord e altre del Centro Sud è destinata ad
aumentare, in particolare adesso che non si può ricorrere più alla
spesa pubblica.
La mancanza di meritocrazia ci ha resi più ineguali, nonostante la
pretesa di essere una società basata sulla solidarietà. Ma è anche la
principale causa della stagnazione economica degli ultimi 25 anni.
L’apartheid del lavoro, oltre a essere ingiusto, ha distrutto la
produttività, perché il precario bravo raramente riceve dalle imprese
gli investimenti in formazione e in sviluppo professionale, che alla
fine ci rimettono in produttività. E l’immettere ogni anno molto meno
studenti eccellenti (un terzo) delle società nordeuropee con scuole
capaci di seguire i più lenti ma anche di valorizzare i più bravi, non
creerà la classe dirigente per fare ripartire l’economia del nuovo
millennio.
Convincersi che la meritocrazia porta a più eguaglianza e
conseguentemente «rottamare» tanti tabù della vecchia sinistra sarà
essenziale a Pier Luigi Bersani per convincere gli elettori del Pd che
hanno votato per Matteo Renzi a votare per lui alle prossime elezioni e
a vincerle. Ma soprattutto sarà essenziale per governare un Paese fermo
da 25 anni.