Oltre alle sue
poesie e al “mito del fanciullino”, che richiamano alla memoria la
nostra infanzia, le luminose aule delle elementari e la voce tonante
delle maestre d’un tempo, ci colpisce, di Giovanni Pascoli, la sua
difficile e tormentata vita terrena, piena di inquietudine e di
smarrimenti, di drammi familiari e di amore per i suoi cari… Così lo
vogliamo celebrare, nel centenario della sua scomparsa.
Giovanni Pascoli nacque a San Mauro di Romagna, (oggi San Mauro Pascoli
in suo onore), il 31 dicembre 1855, da una famiglia agiata, quarto di
dieci figli. Il padre, Ruggero, amministratore dei principi Torlonia,
il 10 agosto 1867, quando Giovanni aveva quasi dodici anni, venne
assassinato con una fucilata mentre, da Cesena, tornava a casa con il
proprio calesse. Le ragioni del delitto, forse di natura politica o
forse dovute a contrasti di lavoro, non furono mai chiarite e i
responsabili rimasero per sempre oscuri, nonostante tre processi
celebrati e nonostante la famiglia avesse forti sospetti sull’identità
dell’assassino, come traspare evidentemente nella famosa poesia “La
cavallina storna”: probabilmente i mandanti consideravano Ruggero
Pascoli un “servo dei padroni”. Ma la tragedia del padre segnò
profondamente la vita del poeta. Inoltre, la famiglia Pascoli, in
seguito alla sciagura, subì un inarrestabile tracollo economico e,
successivamente, una serie impressionante di lutti, disgregandosi:
costretti a lasciare la tenuta, l’anno successivo morirono, la madre,
per un attacco cardiaco, la sorella Margherita, di tifo, il fratello
Luigi, nel 1871, colpito da meningite, e, successivamente, nel 1876, il
fratello maggiore Giacomo, anche lui di tifo, che aveva tentato
inutilmente di ricostituire il nucleo familiare a Rimini. Le due
sorelle, Ida e Maria, furono messe dallo zio, tutore, a studiare in un
collegio del convento delle monache agostiniane, dove rimasero per
dieci anni, mentre i quattro fratelli vivranno insieme, e Giovanni
studierà a Urbino, nel Collegio Raffaelo dei padri Scolopi, grazie ad
un assegno concesso dai Torlonia. Nei racconti della sorella Maria, il
futuro poeta viene presentato come un ragazzo solido e vivace, dal
carattere volitivo e tenaci, impegnato a terminare il liceo ed a
proseguire gli studi universitari, ma anche “puntiglioso”, e frustrato,
nel ricercare e perseguire l’assassino del padre. Nel 1871, all’età di
sedici anni, dopo la morte del fratello Luigi, Pascoli dovette lasciare
il collegio e trasferirsi a Rimini, insieme ai suoi cinque fratelli,
Giacomo, Raffaele, Giuseppe, Ida, Maria, per frequentare il liceo
classico “Giulio Cesare”. In seguito, terminati gli studi liceali a
Cesena, dopo aver fallito l’esame di licenza a Firenze, grazie ad una
borsa di studio di 600 lire (che poi perse per aver partecipato ad una
manifestazione studentesca), Pascoli si iscrisse all’Università di
Bologna, dove ebbe come docenti, tra gli altri, il poeta Giosuè
Carducci, di cui divenne amico, il latinista Giovanni Battista Gandino,
e il critico Severino Ferrari. Nel 1877, dopo aver conosciuto il
socialista Andrea Costa, si avvicinò al movimento anarco-socialista,
partecipando all’attività politica, e tenendo comizi a Forlì e a
Cesena. Dopo la laurea, conseguita nel 1882, con una tesi su Alceo,
Pascoli iniziò la carriera di insegnante di latino e greco, nei licei
di Matera e di Massa. Dal 1887 al 1895 insegnò a Livorno, al
Ginnasio-Liceo “Guerrazzi e Niccolini”. Intanto iniziò la
collaborazione con la rivista “Vita Nuova”, su cui uscirono le prime
poesie di Myricae. Costretto, per lavoro, a continui spostamenti, volle
sempre accanto a sé le due sorelle minori, Ida e Maria, uscite dal
collegio, con le quali tentò di ricostituire il primitivo nucleo
familiare. Nel 1894 venne chiamato a Roma per collaborare con il
Ministero della Pubblica Istruzione. Nella capitale pubblicò la prima
versione dei “Poemi conviviali” e conobbe Gabriele D’Annunzio, che lo
apprezzò e lo stimolò a continuare a scrivere, e con il quale mantenne
sempre un rapporto complesso. Dopo alcuni incarichi universitari a
Messina e a Pisa, Pascoli, nel 1906, assunse la cattedra di Letteratura
Italiana all’Università di Bologna, succedendo a Carducci. Non
riuscendo mai ad “integrarsi” pienamente nella vita sociale delle città
dove lavorava, Giovanni Pascoli cercava, in tutti i modi, di crearsi un
“ambiente” consono alla sua “visione di vita”, sviluppando una
possibile “via di fuga” verso il suo originario mondo agreste. A tal
proposito, nel 1895, si trasferì, con la sorella Maria, in Garfagnana,
nel piccolo borgo di Castelvecchio, in una casa che divenne la sua
residenza stabile, quando poté acquistarla col ricavato della vendita
di alcune medaglie d’oro vinte nei concorsi letterari. Affettivamente
legato, in maniera quasi eccessiva, alle due sorelle, per preservare
quello che pareva essere un “nido familiare”, Pascoli addirittura
annullò il suo imminente matrimonio con la cugina Imelde Morri, e mai
accettò le nozze della sorella Ida (avvenuto il 30 settembre dello
stesso anno), che considerò come un tradimento. Inoltre, si fecero
difficili i rapporti con il fratello Giuseppe, che sposò una vedova con
figli di un membro della famiglia Pagliarani di San Mauro, che Pascoli
riteneva coinvolti nell’omicidio del padre; dopo la fine del
matrimonio, Giuseppe, metterà in imbarazzo Giovanni, a Bologna,
ubriacandosi continuamente in pubblico, nelle osterie, convivendo con
la figliastra e minacciandolo di denuncia per presunti maltrattamenti
durante l’infanzia; mentre il marito di Ida, che poi la abbandonerà con
i figli piccoli, gli chiede continuamente soldi per i suoi debiti, che
Pascoli comunque spesso gli concede. I gravi conflitti politici e
sociali che agitavano gli anni di fine secolo e che preannunciavano
l’imminente scoppio della Prima Guerra Mondiale, determinarono,
progressivamente, in Pascoli, già emotivamente provato dal fallimento
del suo tentativo di ricostruire la famiglia d’origine e dai tanti
problemi dei propri congiunti, una condizione di insicurezza e di
pessimismo ancora più marcati, che lo condussero in una fase di
depressione e nel baratro dell’alcolismo: il poeta abusa di vino e
cognac. Le sue uniche consolazioni sono i ricordi dell’infanzia, la
poesia, e il “nido di Castelvecchio”; anche la perdita della fede,
cercata e avvertita comunque nel senso del mistero universale, in una
sorta di agnosticismo mistico, lo priva di una possibile “salvezza”,
“La fiaccola che lo rischiara è in mano della nostra sorella grande
Morte!”. Nel 1911, allo scoppio della guerra italo-turca, presso il
teatro di Barga pronuncia il celebre discorso a favore
dell’imperialismo, “La grande Proletaria si è mossa”: egli sostiene
infatti che la Libia sia parte dell’Italia irredenta, e l’impresa sia
anche a favore delle popolazioni sottomesse alla Turchia, oltre che
positiva per i contadini italiani, che avranno nuove terre. Si tratta,
in sostanza, non di nazionalismo vero e proprio, ma di un’evoluzione
delle sue utopie socialiste e patriottiche. Il 31 dicembre 1911 compie
56 anni. Sarà il suo ultimo compleanno: poco tempo dopo le sue
condizioni di salute peggiorano. Il medico gli consiglia di lasciare
Castelvecchio e trasferirsi a Bologna, dove gli viene diagnosticata la
cirrosi epatica; nelle memorie della sorella, invece, viene affermato
che fosse malato di epatite e tumore al fegato, forse per nascondere
l’abuso di alcool. La malattia lo porta alla morte, il 6 aprile 1912,
nella sua casa di Bologna, in via dell’Osservanza n. 4. Il certificato
di morte riporta come causa un tumore allo stomaco, ma è probabile
fosse stato redatto dal medico, su richiesta di Mariù, per eliminare
tutti gli aspetti che lei giudicava sconvenienti per l’immagine del
fratello, come la dipendenza da alcool, la simpatia giovanile per
l’anarchico Passannante e la sua affiliazione alla Massoneria. Pascoli
venne sepolto nella cappella annessa alla sua dimora di Castelvecchio
di Barga, dove sarà tumulata anche l’amata sorella Maria, sua biografa,
erede universale, nonché curatrice delle opere postume del grande poeta
italiano.
Angelo
Battiato (inviato speciale a Brescia)
angelo.battiato@istruzione.it