Milano: Se
millesettecentocinquantanove ore vi sembran poche. Così la pensano i
lettori di Corriere.it che ieri non hanno gradito il meticoloso calcolo
dell'impegno dei docenti fatto da Rossana
Bruzzone e Maria Antonia Capizzi della scuola secondaria di primo
grado «Quintino Di Vona» di Milano. Le professoresse avevano elencato
in una tabella quanto tempo dedicano durante l'anno a ogni attività
didattica: 612 ore di lezione frontale, 206 di preparazione, 75 per la
correzione dei compiti, 48 per impostare le verifiche e via di seguito:
un totale di 1.759 ore; 39,98
settimanali, considerando «non lavorativi» luglio e agosto.«C'era una
volta la scuola della mattina. Quella delle insegnanti part-time, che
dopo il lavoro hanno tempo per sé... C'era. Oggi non più. Oggi, alle
medie, sei a scuola tutto giugno, e dal primo settembre. Tante vacanze?
Sì, ma lavori di più. Quando? I sabati e le domeniche, per esempio»,
hanno scritto in una lettera pubblicata ieri sul Corriere della Sera.
«Trattati come liberi professionisti, pagati come operai. Educatori o,
all'occorrenza, babysitter. Mamme, papà, zii o anche nonni, se la
famiglia manca. Burocrati, vigili, segretari. Psicologi, tuttologi,
ignoranti. Secondo i punti di vista. Che vanno sempre bene perché la
scuola è uno di quegli argomenti di cui pochi sanno, ma tutti
parlano».Centinaia i commenti arrivati online per criticare,
ridicolizzare o ridimensionare lo sfogo delle due insegnanti. Con
sarcasmo: «Integrali e derivate vengono calcolati diversamente; i
Continenti vanno alla deriva quindi cambiano anche gli atlanti;
Platone, Dante, Pascoli, Manzoni, Carducci ogni anno pubblicano nuovi
testi; l'anno prossimo Cesare varcherà ancora il Rubicone?». O con
puntiglio: «Vogliamo aggiungere che un insegnante non ha mai lavorato
il 24 dicembre o tra Natale e Capodanno o nella settimana di Pasqua?».
Compreso il fuoco amico dei colleghi: «Lavoro da 35 anni nella scuola e
le ore riportate mi sembrano, mediamente, gonfiate. D'altra parte in
mancanza di criteri oggettivi di valutazione ciascuno può dire quello
che vuole».Alcuni hanno provato a difendersi. «Credo che molti di noi
prof preferirebbero timbrare un cartellino alle 8 e alle 16, avere una
stanza riscaldata, una scrivania, un computer, dei buoni pasto o una
mensa. Preferirebbero tornare a casa senza pacchi di compiti e libri
scolastici dove preparare le lezioni». E ancora: «Ma siete mai stati in
una scuola italiana? Io per assemblare i testi da presentare per un
modulo sulla poesia amorosa del '900 ho impiegato un pomeriggio di
ricerche. Come potrei farlo a scuola senza computer, senza testi
adeguati, senza i miei libri, i miei appunti, il mio schedario?
Dimenticavo, tutto rigorosamente pagato da me e non detraibile dalle
tasse».All'acredine manifestata dai lettori replica Lucrezia Stellacci,
capo dipartimento Istruzione al ministero, da 35 anni
nell'amministrazione scolastica. «È vero, c'è chi non impiega 1.759 ore
all'anno. Ma conosco tanti che dedicano dodici al giorno agli studenti:
sono quelli che vivono il loro lavoro come una missione. C'è poi chi lo
prende come una professione, e si impegna scientificamente in modo
inappuntabile. E c'è infine chi lo considera un mestiere, con l'alibi
che con quello stipendio non vale la pena fare più di tanto».Per la
funzionaria del governo Monti il vero problema è che «non c'è
valutazione, non c'è carriera, non c'è controllo. Tutto è affidato alla
propria coscienza e alla capacità dei dirigenti di coinvolgere tutti».
Quanto alla lettera delle due professoresse milanesi, Lucrezia
Stellacci è comprensiva: «Penso che oggi la buona scuola si senta
mortificata. Non le critico, anzi saluto l'iniziativa con plauso».
Elvira Serra
Corriere.it