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Cultura e spettacolo: In Africa partnership produttive per i marchi della moda

Rassegna stampa
Trade, not aid” (Commercio non aiuto). Bastano queste tre parole, che in inglese fanno anche rima, per descrivere il pensiero della classe dirigente africana illuminata, quella che vuole mostrare all'Occidente la fine del tunnel di guerre, malnutrizione, malattie e sfruttamento che ancora oggi molti si immaginano quando pensano all'Africa.

Che è un continente, non un unico grande Paese. Un continente fatto da oltre 50 Paesi, in moltissimi dei quali sopravvivono disuguaglianze e ingiustizie, ma che sembra finalmente avviato verso una crescita economica sana e sostenibile. I dati economici ribaditi con forza la settimana scorsa a Roma, durante il summit annuale dell'International Herald Tribune, parlano chiaro: dal 2000 al 2010 il Pil africano è cresciuto con una media annua del 4,9% e da qui al 2015 ci sarà un ulteriore aumento del 12%, ben superiore al tasso mondiale e persino a quello della "lepre" degli ultimi anni, la Cina, non a caso primo partner commerciale dell'Africa e maggior investitore nel continente.

Forse ancora più significativa della crescita del Pil è quella della classe media, che entro i prossimi tre anni arriverà a contare oltre 300 milioni di persone, mediamente più giovani dell'equivalente occidentale e asiatico e – questo è il dato più interessante per le aziende del settore – affamati di moda. Non che nel continente manchino creatività, giovani stilisti e start up tessili o di abbigliamento e accessori. Anzi. Negli ultimi anni si sono moltiplicate le fashion week locali e Mercedes Benz, main sponsor delle settimane della moda di New York e Berlino, da cinque anni ha legato il suo nome anche alle sfilate di Johannesburg, dove dal 24 al 28 ottobre 40 stilisti del Sudafrica e di altri Paesi africani hanno presentato le rispettive collezioni. Al contrario delle sfilate di Milano, Parigi, Londra e New York, riservate agli addetti ai lavori, quelle di Joburg erano aperte al pubblico: un certo numero di posti veniva venduto a 15 dollari l'uno a partire da un'ora prima dello show.

Tra gli ospiti (non paganti, ovviamente) quest'anno c'erano Anna Wintour, direttore di Vogue America, e Scott Schuman, forse il blogger più influente del settore, con il suo thesartorialist.com. Grande successo anche per la Nigeria fashion week, che si è tenuta dall'8 al 10 novembre a Lagos, affollata da stilisti e buyer africani, affiancati da molti giornalisti e proprietari di negozi multimarca arrivati dall'Europa e dagli Stati Uniti.
Questo esercito di stilisti africani per ora si accontenta di rivolgersi al mercato interno ma potrebbe presto guardare oltre. Anche perché – hanno spiegato molti esperti a Roma durante il summit dell'Iht – in Africa esistono tradizioni e competenze artigianali per realizzare tessuti e accessori di grande qualità. Ai marchi della moda e del lusso conviene mettere a punto strategie di espansione ad hoc, come ha spiegato Uché Okonkwo, fondatrice di Luxe Corp, società di analisi e consulenza per il continente africano con sede a Parigi, che ha tra i suoi clienti il gruppo Gucci, Lvmh, Chanel, molti brand di Richemont e department store come Printemps.

«Gli africani non si considerano più eterne vittime di un destino avverso, siete voi occidentali a vederci così – ha detto Uché Okonkwo a Roma, catalizzando l'attenzione della platea –. Quindi se volete venderci prodotti di moda o di lusso non devono essere di seconda scelta. Non vogliamo la vostra pietà ma la vostra considerazione ed è importante che i marchi stringano partnership produttive, oltre che distributive, con aziende africane. Nel continente vivono un miliardo di persone, il 70% ha meno di 30 anni e il 67% meno di 25. Il mercato dei beni di consumi vale già oggi 600 milioni di dollari e la classe media africana, che conta più di 300 milioni di persone, è quella con il più alto tasso di crescita al mondo. Lo stesso vale per il numero di High net worth individuals – ha concluso Uché –. Nel 2020 i consumatori africani avranno un potere d'acquisto di 1,5 miliardi di dollari: non credo che ai brand occidentali convenga ignorare questo mercato o, peggio, continuare a vederlo con una mentalità post-colonialista».

Il Sole 24 Ore









Postato il Domenica, 25 novembre 2012 ore 20:00:00 CET di Rosita Ansaldi
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