Sul
quotidiano il Giornale di oggi troviamo un interessante stralcio
dell’articolo di Adolfo Scotto di Luzio, docente di Storia della scuola
presso l’Università di Bergamo, scritto per il nuovo numero, che uscirà
da domani, della rivista Vita e Pensiero dell’Università Cattolica. La
questione riguarda l’istruzione tecnica e professionale che per
vent’anni ha rappresentato un aspetto cruciale non risolto della
riforma della scuola italiana. Se negli anni addietro ha regnato una
contrapposizione netta fra versante classico-umanistico da una parte e
la sparizione tendenziale dell’istruzione tecnica e professionale
dall’altra, oggi ha preso forma un indirizzo di politica scolastica a
favore della formazione professionale. Cosa significa nei fatti questa
scelta di percorso? La risposta la ritroviamo nei fenomeni sociali
attuali, che fanno emergere da un lato il tema, divenuto dominante
nelle società occidentali, della disoccupazione; dall’altro,
l’esperienza allarmante di una delegittimazione di massa dei processi
formativi. La scuola, infatti, negli ultimi decenni è stata il teatro
di una vera e propria secessione educativa. Di fronte a percorsi
formativi sempre più generici, insegnanti, politici ed educatori hanno
dovuto prendere atto di un rifiuto generalizzato e di massa. La
rimodulazione del rapporto tra formazione educativa e scolastica di
tipo tradizionale e approccio al lavoro ha significato innanzitutto un
tentativo di rispondere a questo rifiuto. Un modo per restituire alla
scuola, in una società segnata da una crisi di valori, un ruolo
centrale nella costruzione della soggettività giovanile. L’antica
diffidenza pedagogica per la formazione tecnico-professionale,
considerata non scuola, si manifesta nella licealizzazione
dell’istruzione professionale, che è il modo in cui la vecchia
istruzione professionale di Stato viene assorbita e annullata dentro il
perimetro di una generica istruzione secondaria. La riforma Moratti ha
tentato di risolvere la questione, ma l’idea di due percorsi scolastici
di pari dignità non ha sortito risultati migliori, mantenendo, così,
l’antico pregiudizio originario di tipo statalistico-classicista a
danno della formazione dei tecnici. I cambiamenti economici del Paese
spingono avanti l’idea che, dare potere decisionale alle Regioni
riguardo alle competenze in materia scolastica e offrire maggiore
autonomia ai singoli istituti, è un modo per rinnovare l’organizzazione
strutturale della scuola. La visione semplicistica consisteva
nell’ignorare la profondità storica che le competenze tecniche e
professionali hanno dato nel sostenere lo sviluppo economico e
industriale dell’Italia. Anche l’istruzione liceale, dalla quale fino
al 1969 si passava obbligatoriamente per accedere all’università, ha
prodotto soprattutto laureati in materie scientifiche e non la pletora
di latinisti che ci si è immaginati. E’ stato proprio il governo
centrale, il vituperato modello accentrato della scuola italiana, a
dare corpo e struttura all’istruzione tecnica e professionale e a
inserirla nel quadro nazionale e al servizio di un progetto ambizioso
di sviluppo del Paese, senza questa volontà del governo centrale
l’Italia non avrebbe avuto le basi culturali della propria
trasformazione nel corso del Novecento.
Adolfo Scotto di Luzio
Il Giornale
Adolfo Scotto di Luzio
Il Giornale