Più
che un punto di arrivo, il completamento della riforma del mercato del
lavoro tramite i correttivi apportati dal decreto Sviluppo e il varo
della Spending Review costituiscono un utile punto di avvio da cui i
partiti dovrebbero muovere, dopo la pausa estiva, per affinare la loro
agenda, in vista della staffetta tra 16ma e 17ma legislatura, ed
elaborare una strategia per traghettare il Paese oltre la crisi.
Dovrebbero farlo anche per recuperare credibilità davanti a cittadini
sempre più sfiduciati e stanchi di non vedere ricompense oltre la siepe
dei sacrifici. La legge Fornero sul lavoro ha indubbiamente osato
laddove altri avevano fallito: nel l'ammorbidimento dell'art. 18, nel
riordino (con estensione di copertura) degli ammortizzatori sociali,
nella revisione delle regole di utilizzo dei contratti atipici più
diffusi in modo da contenerne gli abusi. Certo, il provvedimento poteva
essere ancora più audace e non è esente da ambiguità che ne
complicheranno o ne renderanno erratica l'applicazione (soprattutto per
la smisurata discrezionalità ceduta ai giudici sui licenziamenti). Ma
il Governo si è mosso nella direzione giusta, riducendo anche solo di
un po' il dualismo tra insider e outsider, e assecondando così le
insistenti raccomandazioni europee. Si tratta ora di proseguire con
convinzione, proprio all'interno del nuovo quadro normativo, per
mettere a punto strategie concrete di rilancio dell'economia reale,
rimettendo al centro il lavoro, la sua qualità e l'inclusione delle
categorie di cittadini che negli ultimi anni hanno visto costantemente
deteriorarsi le proprie condizioni di vita. Quasi un'impresa
impossibile mentre si è in recessione. Ma se si cercano ricette
innovative, indirizzando oculatamente un po' delle risorse liberate
dalla Spending Review a misure di crescita, qualche risultato si può
ottenere. Lo spiegano bene i sostenitori del paradigma che concepisce
il welfare come "investimento sociale" che ha in parte sorretto la
Strategia europea per il 2020 in tema di lavoro. In questa prospettiva,
si sottolinea il ruolo positivo per l'economia degli investimenti in
formazione e valorizzazione del capitale umano che, se non sporadici,
danno alle persone le capacità e le conoscenze adeguate per occupare i
lavori che oggi sarebbero già disponibili e per creare i lavori del
futuro. Le risorse destinate alla qualificazione continua, senza
distinzione tra percorsi educativi e professionali, non sono più un
costo netto per lo stato, se rendono "occupabili" le persone durante
l'intero ciclo di vita lavorativa, e cioè in grado di attraversare
senza traumi le diverse "transizioni" dalla scuola al lavoro, da un
lavoro all'altro, dal lavoro alla famiglia e ritorno. Meglio se i
diversi passaggi sono poi accompagnati da un sistema di tutele leggere
che fanno da paracadute quando il salto da una condizione all'altra è
particolarmente rischioso. Puntare sul capitale umano non è né retorico
né effimero. Ma solo se lo si fa davvero e se serve a prevenire
l'obsolescenza delle skills lavorative, se alimenta la capacità di
produrre innovazioni, se incoraggia la propensione ad assumere rischi
calcolati. Serve per combattere la piaga della disoccupazione giovanile
ancora una volta messa in evidenza dall'Employment Outlook del 2012,
uscito poche settimane fa. I giovani in Italia pagano più degli altri
una bufera economica che sembra non avere fine. E la pagano ancora di
più perché si concentrano nei lavori a termine che sono i primi a
essere falcidiati quando la crisi batte duro e quelli in cui si
apprende meno e in modo meno strutturato. Mentre invece dovrebbero e
potrebbero proprio loro essere imprenditori pionieristici in un Paese
che deve risvegliarsi prima o poi dal torpore gerontocratico che lo
annichilisce. L'approccio del welfare come investimento sociale non può
tuttavia essere una scelta additiva che si aggiunge, senza sostituirsi,
ai programmi patchwork dei partiti. In cui non mancano mai, annodati
acrobaticamente insieme, un po' di flessibilità all'americana, un po'
di tutele danesi, un cenno all'efficienza dei servizi di placement
svedesi e il richiamo entusiastico alle politiche familiari francesi.
Tenere tutto insieme è impossibile. Scegliere è quello che la politica
può e deve fare. Con audacia e spirito di responsabilità. È giunto il
momento di spiegare ai cittadini la direzione in cui si intende andare.
E che non sarà necessariamente lastricata di scelte impopolari.
Nell'estate del 2010 Stephan Faris del Time bacchettava crudelmente
l'Italia, perché aveva fatto poco sino a quel momento per reagire alla
crisi. Con l'inevitabile epilogo: «It's time to cut back on la dolce
vita». Nell'estate del 2012, dopo 8 mesi di cura Monti e ancora nel
mezzo di una tempesta finanziaria violentissima, un po' di vita dolce
non guasterebbe.
Elisabetta Gualmini
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