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News: Il taglio impossibile delle Province - tra ribellioni, cavilli e rinvii

Rassegna stampa
Anche gli enti che non vogliono sparire decideranno sul «riordino» - ROMA - «Morituri te salutant». Apostrofava così i cronisti, nell'agosto dello scorso anno, Fabio Melilli, presidente della Provincia di Rieti: l'unica del Lazio che in base ai criteri studiati dall'allora ministro della Semplificazione Roberto Calderoli sarebbe stata azzerata. Beffardo, ma per nulla rassegnato. «La procedura è incostituzionale e non porterà da nessuna parte», sussurrava. I giorni seguenti gli avrebbero dato ragione, perché la proposta di riforma delle Province avanzata dal governo di Silvio Berlusconi scomparve prima ancora di aver visto la luce. Da allora sembra passato un secolo. Ma i salvavita che preservano lo status quo delle Province italiane continuano a entrare in azione. Ce n'è di ogni tipo: ricorsi al Tar, al Consiglio di Stato o alla Corte costituzionale, accordi sindacali... Adesso la valvola provvidenziale si chiama «Consiglio delle autonomie locali». Di che cosa si tratta? È l'organismo che in ogni Regione deve proporre non più «l'accorpamento» delle Province che non rispettano alcuni parametri, come era previsto nella prima versione del decreto sulla spending review, ma il loro «riordino», come invece stabilisce il testo emendato dal Senato. Prendiamo un caso: quello della Toscana, Regione dove in base ai criteri messi a punto dal ministro della Funzione pubblica Filippo Patroni Griffi per tenere in vita una Provincia, non ne sopravviverebbe nessuna delle attuali. Tranne quella di Firenze, che peraltro dovrebbe essere trasformata in città metropolitana, non ce n'è infatti nemmeno una con almeno 350 mila abitanti e 2.500 chilometri quadrati di superficie. Il Consiglio delle autonomie locali qui è composto da 50 persone. Chi è il presidente? Marco Filippeschi, il sindaco di Pisa. Città capoluogo di una Provincia in predicato per essere dissolta e fusa con quella limitrofa di Livorno, che da secoli sfotte i cugini. La più gentile sfornata dai livornesi: «Meglio un morto in casa che un pisano all'uscio». Vi immaginate la prima riunione per decidere chi si «riordina» con chi?
Ancora. Nel Lazio ci sono tre grossi problemi: quello di Latina, Viterbo e Rieti. Tre Province che non rispettano i limiti governativi e dovrebbero essere «riordinate». Nodi che anche in questo caso dovrà sciogliere il Consiglio delle autonomie locali, composto da 35 persone: e presieduto, guarda guarda, dal presidente della Provincia di Rieti, Melilli! Per non parlare degli altri casi, come quello della Lombardia, dove è stato insediato alla guida del locale Consiglio delle autonomie (58 componenti) il giovane leghista Fabrizio Cecchetti, già conduttore di Radio Padania libera, appartenente allo stesso partito di Dario Galli, il presidente della Provincia di Varese che giudicando non più tardi di quattro giorni fa «imbarazzante» il riordino delle Province, ha detto: «Visto che il Governo ha dato alle Regioni le competenze per la riforma delle Province, anche sulla base di un importante incontro avvenuto in Regione credo che la Lombardia non rispetterà i parametri imposti dal Governo, e Varese non si accorperà».
Sarebbe il degno epilogo di una storia, questa sì, davvero imbarazzante. Basterebbe ricordare le posizioni assunte dai leader dei due principali partiti, Il Pdl e il Pd, nella campagna elettorale del 2008. Quando Walter Veltroni prometteva l'abolizione delle Province «inutili» e Silvio Berlusconi rilanciava garantendo tabula rasa. Per tre anni si è fatto finta di niente. Poi, nell'estate del 2011, è spuntata una proposta: via tutte le Province che hanno meno di 300 mila abitanti o una superficie inferiore a 3 mila chilometri quadrati. Immediatamente sono cominciate le proteste e i distinguo: e da 37 i «morituri» sono scesi a 23. Una burla. E la proposta è passata in cavalleria.
Finché Berlusconi non ha dovuto lasciare palazzo Chigi a Mario Monti. Erano le settimane terrificanti dello spread alle stelle fra i rendimenti dei nostri titoli di Stato e i bund tedeschi. Incombevano le prescrizioni contenute nella famosa lettera della Banca centrale europea, che suggeriva tra le varie misure proprio l'abolizione delle Province. E nel decreto «Salva Italia» comparve finalmente una tagliola. «Sarà la volta buona?» si domandavano i sostenitori della riforma. Tanto più fiduciosi perché sia il Pdl che il Pd, a parole favorevoli, questa volta sostenevano insieme il governo.
Ma subito scoppiarono le proteste che costrinsero l'esecutivo a fare una mezza marcia indietro, concedendo un anno di tempo per fissare i criteri in base ai quali ridimensionare gli apparati delle Province, che sarebbero state trasformate da organismi elettivi in strutture di diretta emanazione comunale.
Poi, questa estate, una nuova svolta. Allarmato da un ricorso alla Corte costituzionale contro la disposizione contenuta nel «Salva Italia» in discussione il prossimo 6 novembre, il governo Monti decide di cambiare strada: non più l'abolizione delle Province, che continuerebbero a esercitare funzioni come quelle ambientali e nei trasporti, ma la loro riduzione. Un taglio secco di almeno la metà: poi addirittura di 64 su 107. Anche in questo frangente, tuttavia, il partito delle Province non si rassegna. E al Senato riesce a ottenere che dall'«accorpamento» degli enti fuori dai parametri si passi al più morbido «riordino». Operazione che per giunta non sarà affidata allo Stato, ma alle stesse Province, attraverso i Consigli delle autonomie locali.
Qualcuno, come il relatore al decreto, il pidiellino Gilberto Pichetto Fratin, comincia a profetizzare «un allungamento dei tempi». Ma che pure nel governo non siano completamente rilassati lo testimonia la nota con cui la Funzione pubblica sente il bisogno di precisare il 3 agosto che va considerata «inutile», parole dell'agenzia Ansa, «la compravendita di comuni di confine da parte delle Province per salvarsi dalla cancellazione prevista dalla spending review». Segno che qualche furbetto della Provincina si stava già attrezzando per aggirare i famosi parametri. Del resto, in qualche caso sarebbe sufficiente un'inezia. Alla Provincia di Arezzo, per esempio, servirebbero meno di 500 abitanti per scampare alla cancellazione. Basterebbe annettere un minuscolo Comune limitrofo della Provincia di Siena o di Perugia.
Va detto che gli aretini non hanno mai ufficialmente preso in esame manovre del genere. Contrariamente a quanto è successo in Campania, dove il presidente della Provincia di Benevento Aniello Cimitile è furente all'idea che il suo ente sia l'unico fra tutti quelli della Regione a doversi sciogliere per il mancato rispetto dei limiti quantitativi imposti dal governo. «L'ipotesi da prendere in considerazione per lasciare in piedi anche la Provincia di Benevento», riferisce sempre l'Ansa citando una riunione della Conferenza permanente fra Regione e autonomie locali convocata dall'assessore regionale Pasquale Sommese, «sarebbe quella di un passaggio di Comuni da un territorio a un altro. Benevento potrebbe inglobare alcuni Comuni dell'Avellinese e, a sua volta, il territorio irpino guardare alla Provincia di Salerno». Non domo, Cimitile ha preannunciato intanto una causa al Tar e ha chiesto alla Regione di mettere in moto la Corte costituzionale. L'ennesimo ricorso.  Ma il cambio di rotta del governo, dall'abolizione tout court delle Province alla loro riduzione, non doveva servire a evitare scontri davanti alla Consulta?
Sergio Rizzo
www.corriere.it








Postato il Lunedì, 13 agosto 2012 ore 12:00:00 CEST di Antonia Vetro
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