Silvia Avallone: «Ecco perché
rinuncio. Ho visto troppi aspiranti professori coi volti segnati dalla
disillusione mollare tutto».
Non dici che la sacrosanta verità... anche io come te e come un numero
indefinito di colleghi aspettiamo il "certo" che non verrà mai. Mi sono
ribellata ormai ai ricatti delle scuole paritarie che, per quei
fatidici 12 punti l'anno, ti spremono come un limone senza alcuna
retribuzione. Basta! E' vero, si lavora in tante scuole durante l'anno
a giorni alterni, se va bene, altrimenti nulla anche per interi mesi.
Ciò che ci tiene aggrappati alla speranza è proprio l'amore che
nutriamo nei confronti di questo lavoro e di tutti quei bimbi (io mi
riferisco ai miei bimbi della scuola dell'infanzia) che ti salgono
addosso appena entri in classe e non finiscono mai di imparare tutto
ciò che gli proponi. Grazie Silvia per le tue parole.
Una collega misterbianchese
In quarta elementare, quando le maestre proposero alla classe
d'interpretare l'ennesima fiaba di Andersen per la recita di fine anno,
un gruppetto di scolarette dissidenti di cui facevo orgogliosamente
parte alzò la mano in segno di protesta. Era il 1993. Le nostre
insegnanti sgranarono gli occhi. Noi, con l'impertinenza tipica dei
nove anni, ribattemmo che no, non volevamo saperne di principi e
principesse. «Benissimo» risposero loro «organizzatevela voi, la recita
"alternativa"».
Credo sia stata la prima sfida della mia vita, il primo vero
insegnamento che ho ricevuto (consapevolmente). Nelle ore in cui gli
altri bambini provavano le battute ufficiali, noi scrivevamo il testo
del nostro spettacolo underground. Optammo per la satira e, senza
esitazioni, decidemmo di prendere di mira loro: le autorità, quelle che
volevano darci - letteralmente - una «bella lezione». Tre imitazioni
caricaturali (che, ripensandoci oggi, erano un dolcissimo e struggente
riconoscimento della loro autorevolezza) provate e riprovate a casa e
durante la ricreazione. Il risultato, alla fine, fu un successo e le
prime a chiedere il bis furono proprio loro: i nostri (amatissimi)
bersagli.
Il mestiere d'insegnare, come si fa a farlo stare dentro una
definizione? Perché la prima cosa che fa, un insegnante, è imprimere
una direzione, una matrice, alla tua vita. Nel '93 le nostre maestre ci
hanno dato fiducia, ci hanno rese responsabili. Hanno accettato di
essere messe in discussione per dare a noi l'opportunità di crescere.
Naturale, dopo un'esperienza così, sognare un giorno di eguagliarle. Il
punto non è tanto la materia che insegni. Non è il complemento oggetto,
ma il verbo. Diventare il segugio che scova in ciascun ragazzino quel
talento potenziale, a volte inaspettato, che è nascosto in tutti. La
guida che porta i suoi studenti a immaginare quante possibilità abbiano
in futuro. La scuola è stata questo per me: imparare sul campo il
significato e il perimetro della parola libertà.
Ci tengo a cominciare così, con passione, perché è la passione che ti
muove verso un mestiere del genere. Ciascuno di noi ha una madre, uno
zio, una nonna che ha cresciuto intere generazioni e a cui magari, a
distanza di anni, gli ex allievi telefonano ancora. La bambina
riconoscente che sono stata premeva per raccogliere il testimone, per
contribuire a migliorare la società nel modo più incisivo: in mezzo a
una fila di banchi disposti a ferro di cavallo.
A questo io ho rinunciato. Ho visto la scuola pubblica smantellata
pezzo per pezzo, la ricerca agonizzare, l'università annichilirsi anno
dopo anno. E, in parallelo, questo Paese perdere grinta, ambizione,
ridursi a una cartolina del passato, in cui la cultura viene messa da
parte in favore di non si sa bene quale scorciatoia, quale vicolo
cieco. Ho cominciato a registrare la frequenza di certe massime come:
«La laurea non serve a niente». A una scuola pubblica peggiore può
corrispondere solo un Paese peggiore.
Di insegnanti come quelli che ho avuto - fiduciosi, realizzati - in
giro ormai ne vedo ben pochi. Un giorno sì e uno no incontro un ragazzo
della mia età che scuote la testa avvilito e ripete sempre la stessa
frase: «Sono in graduatoria, sto aspettando». Incontro anche
cinquantenni che stanno aspettando. Conosco pressoché solo supplenti.
La parola «graduatoria a esaurimento» ricorre con lo stesso alone
sinistro del castello di Kafka. Ci sei, sei lì, proprio a un tiro di
schioppo, eppure non ci sei mai. Non c'è verso di raggiungere quello
che oggi, nel nostro Paese, è diventato uno dei mestieri più ardui. Non
basta la laurea. Non bastava neppure la famigerata Ssis, scuola di
specializzazione per l'insegnamento secondario, che hanno allestito e
dismesso nel giro di un decennio. Ostaggi del tempo e dei punti, dei
master online a pagamento che devi collezionare per scalare una o due
posizioni. Sfruttati, ricattati, in balia di un ingranaggio perverso
che ti richiede esami su esami, tasse su tasse, precarietà su
precarietà. Ho chiesto a un'amica (trentacinque anni, un dottorato, due
figli) quando prevedeva, all'incirca, di entrare di ruolo. Mi ha
risposto voltando gli occhi al cielo: «Mai».
Per il 2011/2012 hanno istituito un nuovo ponte per il castello
kafkiano: il Tfa, tirocinio formativo attivo, che impegna per un anno a
pieno ritmo e costa la bellezza di 2.500 euro. Dopodiché: chi lo sa?
Chi ha la forza di non lasciarsi scoraggiare dalle montagne di
burocrazia, dai tempi biblici, dall'incertezza che ottiene in cambio,
lungo la strada ha lasciato un vagone d'entusiasmo a disperdersi nel
niente.
Quattro supplenze l'anno in tre scuole diverse. Che senso ha? Non fai
neppure in tempo a conoscerli, i tuoi studenti. Non ci sarà nessun
percorso insieme, nessuna crescita. Ho visto troppi aspiranti
professori con i volti segnati dalla disillusione mollare tutto
all'ultimo momento perché «così, a questo prezzo, non ne vale la pena».
Non sei nessuno. Non hai più nemmeno un centesimo di
quell'autorevolezza che avevano i tuoi insegnanti dieci, vent'anni fa.
Sei in graduatoria, sei un supplente. Uno che supplisce a un vuoto
pazzesco.
C'è la dignità di mezzo. C'è un senso di frustrazione che ti attanaglia
ogni mattina, ed è quello che ti leggono in faccia gli studenti le
saltuarie volte in cui puoi varcare la soglia della classe. Dovresti
trasmettere loro energia, fiducia, curiosità, e tu sei il primo a non
averne (più).
Se conosco anche storie a lieto fine? Certo, ma sono eccezioni. Il 4
giugno scorso, il giorno in cui scadeva il bando d'iscrizione all'esame
per il Tfa, i miei amici e io, tutti aspiranti professori ai tempi del
liceo, ci siamo ritrovati intorno a un tavolo e ci siamo guardati in
faccia. Tu ti sei iscritto? Io no, e tu? Neppure io. Troppo tardi,
troppe poche certezze per un azzardo simile. Follia pura, pensare di
raggiungere una cattedra. E dire che mia madre, a soli vent'anni, dopo
aver vinto il concorso di Stato era già di ruolo.
Cos'è successo nel giro di un paio di generazioni alla scuola pubblica?
Non basta una vita per insegnare, non bastano quarant'anni di servizio
per arrivare a saperlo fare davvero (me lo ripeteva sempre il mio prof
d'italiano). E con un tempo determinato che non va dal lunedì al
sabato, che ci fai? Come puoi dire ai tuoi studenti che il futuro si
costruisce qui? Che i sacrifici ripagano sempre, se non riesci più a
risultare persuasivo?
Continuo a credere che la scuola sia la sola opportunità uguale per
tutti di diventare cittadini liberi e intraprendenti. Ma lo è solo a
patto che lo siano anche gli insegnanti: liberi di diventarlo. Anziché
arrivare come me, a portarsi dietro un rimpianto. Quello di non poter
essere io la maestra che, di fronte a uno stuolo sfrontato di
ragazzine, dice: «Va bene, inventate la vostra recita alternativa,
provate a camminare con le vostre gambe. Io sono qui per questo».
Silvia
Avallone - Corriere della sera.it