Su alcuni di questi hanno discusso con l’autore il prof. Pino Pesce, direttore del periodico l’Alba, la prof.ssa Rosa Maria Crisafi e la prof.ssa Mariacarmela Crisafi, docenti di Materie letterarie, coordinati dal dott. Giuseppe Catania, presidente del circolo culturale.
Come un pittore che mescola i colori della sua tavolozza, così la serata ha mescolato musica e teatro nella tavolozza denominata cultura. Ed è su questo aspetto, dopo le note dell’Adagio della Prima sonata per violino solo di Bach, suonate dal violinista Federico Pedicona, che il dott. Catania ha insistito, soprattutto, sull’importanza di fare e promuovere la cultura.
L’incantevole recitazione dell’attrice Luisa Ippodrino ha introdotto l’intervento del prof. Pesce, il quale prima di presentare Vincenzo Pirrotta come drammaturgo, lo ha ricordato come attore, ruolo artistico dove eccelle per la sua energia espressiva e la sua fisicità: «E’ come se un dio parlasse in lui» dice il direttore de l’Alba ricordando il foscoliano «Nume in petto» che poi «caratterizzerebbe – con i distinguo e i vari registri ispirativi – Pirrotta come attore, regista e scrittore.»
«I tre ruoli – per Pesce – hanno una matrice formativa comune: la strada (e quindi il nonno di Vincenzo, venditore ambulante di vestiti), l’opera dei pupi e le prime (sempre grazie al nonno) letture di libri sul comunismo e su Pier Paolo Pasolini. Questo retaggio – chiarisce il professore – è più evidente nel dramma A l’ombra della collina, dove lo scrittore di Casarsa – nella trasposizione letteraria, che riconduce all’oltretomba letteraria (da Omero a Dante attraverso Virgilio) – viene presentato da Pirrotta come il proprio mentore».
Dal duettare di Pirrotta e della Ippodrino su un dialogo, tratto da All’ombra della collina, il secondo intervento del prof. Pesce, il quale da una parte condivide il carattere di teatro civile e di denuncia, dall’altra non è d’accordo sull’«uso predominante del dialetto che taglia la comunicazione all’interno della stessa area linguistica: Sicilia occidentale, centrale ed orientale, a loro volta frammentate dalla miriade di diversità linguistiche».
A raffreddare i toni calducci, l’intermezzo musicale del chitarrista classico, Armando Percolla, cui segue l’intervento della prof.ssa Rosa Maria Crisafi che si sofferma proprio sul carattere della denuncia civile, spiegando il significato del teatro pirrottiano con questa frase tratta dal manuale di storia del teatro di Alonge e Tessari: «A teatro la comunità vede riflessi i miti del proprio patrimonio culturale e mitologico: e il teatro suscita negli spettatori un effetto benefico, li libera dalle passioni». Le riflessioni della prof.ssa Crisafi, dal generale al particolare, da un excursus sulla storia del teatro si sono poi soffermate sulla Ballata delle balate, inserito nel filone della denuncia civile insieme a Sacre-Stie e Quei ragazzi di Regalpetra. Ma a parlarci di questa Ballata, su invito della Crisafi, è stato proprio l’autore il quale racconta che «è il canto di colpa e di “non espiazione” di un latitante, che recita un rosario dove i misteri dolorosi sono quelli della passione di Cristo e i misteri gioiosi (e non gaudiosi) i grandi delitti di mafia: De Mauro, Scaglione, Impastato, Dalla Chiesa, Chinnici e Cassarà, la masculiata di Capaci, ecc… L’opera è stata meditata dopo l’arresto del boss di Brancaccio, nel cui covo sono stati trovati bibbie, immagini di santi e altarini». La vicenda, che si volge durante la Settimana Santa, oscilla tra sacro e profano in mezzo al quale scorre il sangue che come un ossimoro accosta il sangue di Cristo al sangue delle vittime. E così come una pennellata rossa, risultano forti le parole del mafioso recitate dallo stesso Pirrotta: «A mia mi piaci lu sangu! E lu sangu n’cà fazzu scurriri iu, cu è n’cà lu po richiamari dintra li vini? Iu vogghiu viriri lu sangu, voggiu astutari li cristiani comu cannili. Lu ciavuru di lu sangu d’un mortu ammazzatu, pi mia è ciavuru di puisia». Nella fase di scrittura di questo testo – rivela l’autore – è stato assillato da una domanda che solo alla fine ha avuto una risposta: « Come si può leggere il precetto di Gesù, ama il tuo nemico e subito dopo essere mandanti di un omicidio? Il mafioso, attraverso la parola sacra, non vuole avvicinarsi a Dio ma sostituirsi a Dio». Infatti il Dio invocato dal latitante non è il Dio misericordioso ma quello sanguinario, della vendetta.
Ma è in Sacre-Stie che «la parola si veste di una sincerità spietata e provocatoria e sembra prendere corpo, coinvolgendo i sensi». Con queste parole ha esordito la prof.ssa Mariacarmela Crisafi, la quale chiede subito all’autore cosa si prova a dover entrare nella mente di un pedofilo. E non scontata ma dal sapore amaro, la risposta di Pirrotta, il quale rivela che è una realtà atroce, che «lascia il vuoto dentro».
La prof.ssa Crisafi si sofferma sul testo definendolo «dai toni forti e atroci, la storia di un uomo, che impiega la vita a meditare la sua vendetta nei confronti di un cardinale che in passato aveva abusato di lui, quando era solo un bambino, e la cecità del cardinale, elemento catartico per il protagonista, sarà invece il suo contrappasso. Innegabile nel testo il riferimento a Edipo, anche se in questo caso il processo è inverso».