Catania (gico). Chi sogna il sogno del teatro? Chi sogna
il sogno dell’arte e della poesia?
Con il fulmen in clausura della sua produzione teatrale, Luigi
Pirandello offre con “I giganti della
montagna” il sogno terminale di una riflessione altissima e
preveggente sul contrasto tra natura e civiltà, sull’impossibilità
della poesia nel mondo dominato dalla tecnica e sull’idea dell’arte
come sintesi assoluta dell’esistenza.
Certo, affrontare sulle scene del Teatro Verga un testo così allusivo,
così permeato da un “eccesso di volontà costruttiva” che ne costituisce
forse il suo paradossale limite non era compito agevole. La regia di
Giuseppe Dipasquale ha saputo assai bene districarsi tra i pericoli del
pirandellismo e dell’indecifrabile che sostanziano i due “momenti”
dello spettacolo, cui si aggiunge il “terzo” completato dal figlio
Stefano Pirandello.
L’apparente linearità dell’azione drammaturgica – la Compagnia della
Contessa Ilse che giunge a villa La Scalogna, un non-luogo abitato
da strani esseri, ora spiriti ora fantocci (ma in realtà custodi del
senso più profondo della vita) - si frantuma e si scioglie dilatandosi
nella visione. In quale dimensione si svolge la loro storia, quale
“favola nuova” giungono a mettere in scena, se non quella
dell’impossibilità della creazione e della rappresentazione stessa
davanti al mondo estraneo e indifferente dei Giganti?
La suggestione dei costumi di Elena Mannino e soprattutto della
fascinosa scenografia di Antonio Fiorentino, magicamente in bilico tra
surrealismo e ossessione onirica (vi è, indubbia, la risemantizzazione
delle suggestioni pittoriche di Max Ernst e di Paul Delvaux) anche
attraverso l’assemblaggio degli oggetti, lascia emergere la potenza
arcaica dello sciamano “dimissionario dal mondo” Cotrone (Vincenzo
Pirrotta esprime il meglio di sé nei panni di questi personaggi così
drammaticamente connotati) insieme ai molteplici fantasmi
dell’immaginario isolano di cui Pirandello si era nutrito
nell’infanzia.
In una sorta di regione limbica, indefinita e vaga ma rischiarata
perennemente da una luce lunare e ctonia, questo “mito” pirandelliano
libera la sua forza nella seconda parte della rappresentazione, lì dove
il “fascino dell’improbabile”, l’alternanza continua di inconscio,
lacerti di sogno e associazioni alogiche delineano la profezia
pirandelliana di un mondo conforme e incapace di comprendere la poesia:
i Giganti, il Potere dunque, ma oggi potremmo anche aggiungere il
rimbellicimento mediatico ad alta definizione, il raffinato controllo
delle coscienze e dei mezzi di produzione, comunque il “pubblico” con
cui sperare di confrontarsi, non lasciano scampo. Se lo scempio di Ilse
ne testimonia, ancora una volta, tutta l’ottusità, l’accettazione di un
risarcimento a quella morte pare prefigurare il compromesso con quel
Potere cui l’arte, per sopravvivere, dove sottostare.
Giuseppe Condorelli
condorg@tiscali.it