Vi offro un viaggio molto
speciale in un luogo di preghiera e di amore, un luogo apparentemente
distante dal mondo ma vicino alla sua sofferenza e felicità. Andiamo a
visitare il monastero delle monache carmelitane di clausura, sito in
San Giovanni La Punta, in provincia di Catania, dove avremo modo di
dialogare con Suor Maria Simona che mi ha onorato della sua amicizia
già prima di entrare nell’Ordine. Il cancello di fuori e il portone per
accedere al convento sono automatici; assai singolare, invece, è
l’acceso alla stanza del parlatorio dove, per l’appunto, possiamo avere
il privilegio di formularle qualche domanda e di stare un po’ in loro
compagnia, e ne vale la pena. Ad accoglierci sull’uscio non c’è
nessuno, ma all’ingresso vi è una ruota nella quale, le sorelle,
ripongono la chiave per aprire la loro porta e poter raggiungere la
stanza dove avviene l’incontro, attraverso una grata a maglie
abbastanza larghe che permette a noi di poter gustare il sorriso e la
tenacia di Suor Maria Simona e delle altre consorelle.
Ecco, carissima Simona, vorrei partire
proprio dal gesto bellissimo di affidare la chiave a chi viene da
fuori. Per voi è un fattore esclusivamente logistico o c'è un
significato più profondo?
«La chiave? Beh, ovviamente è per motivi logistici: abbiamo preferito
questa modalità, senz’altro un po’ fastidiosa, di tenere le porte
chiuse a chiave per evitare, purtroppo, spiacevoli inconvenienti. La
chiave di accesso ci permette un minimo di controllo e per noi che
viviamo, prettamente, all’interno dell’edificio, è importante. Noto
però che a molti affascina questo gesto del dare la chiave attraverso
la ruota, è come se in realtà, ci si sentisse autorizzati a fare un
passo oltre…in questa forma di vita che, per molti, rimane assai strana
e…misteriosa. E, anche per noi, significa dare la chiave di accesso
alla nostra vita, alla nostra chiamata, affidandovi attraverso quella
chiave un po’ di noi. Certo, con la differenza che la chiave,
alla fine dell’incontro, sarà nuovamente riposta nella ruota mentre,
quanto abbiamo avuto modo di condividere, ci si augura che rimanga in
noi, che possa portare frutto una volta tornati nella quotidianità».
Perché un Frate o una Suora, a
differenza dei sacerdoti, oltre a mantenere il proprio nome di
battesimo ne aggiunge un altro? Sempre a proposito di nomi, quello da
Religiosi si riceve o si può scegliere?
«Una volta era obbligatorio cambiare il nome quando si faceva la
Professione Religiosa, cioè quando si pronunciavano i voti. Era un modo
per esprimere, anche nel nome, il cambio totale della propria persona,
quasi un assumere una nuova identità. Se bastasse cambiare il nome...!
Con il Concilio Vaticano II, la Chiesa ha chiesto una certa “pulizia”
di quelle pratiche che, in fondo, non erano essenziali. Così, il cambio
del nome è rimasto facoltativo. Si preferisce, ormai, non farlo
soprattutto per agevolare il disbrigo dei documenti, dove facilmente si
veniva a creare una gran confusione di nomi. Personalmente, credo che
il progetto che Dio ha su di noi è ben scritto nel nome che riceviamo
al fonte battesimale: è lì che veramente siamo rese nuove creature, le
aggiunte possono essere solo delle esplicitazioni, ma non sono vitali.
Comunque, il nome, una volta, veniva “fraternamente” imposto, adesso
chi desidera cambiarlo lo sceglie proponendolo alla comunità. In
genere, si aggiunge un nome che caratterizza il proprio ordine:
per es., l’Ordine Carmelitano è legato alla Madonna del Carmelo e
quindi aggiungiamo “Maria”, le Clarisse “Chiara”… Ma non è uso di tutti
gli ordini e per quanto ne sappia io, è più in uso nel ramo femminile».
Dicevamo che le maglie delle grate
sono abbastanza larghe e non più fitte come quelle di una volta o come
quelle delle Clarisse. Da quanto tempo il vostro Ordine ha modificato
le regole (se le ha modificate) e perché?
«Più che modificare le regole, direi che si è trattato, sempre nello
spirito del Concilio, di puntare ai segni essenziali. Non credo ci sia
differenza fra gli Ordini quanto piuttosto fra le singole comunità.
Alcune sono più legate alle forme, altre pur mantenendo il “segno” lo
hanno allargato ai tempi. In fin dei conti, non sei più santa perché
guardi le persone attraverso una scacchiera doppia o più fitta o se non
puoi stringergli la mano…a volte, un sorriso trasmesso con serenità o
una mano stretta anche attraverso la grata divengono doni grandi per
chi, in quel momento, ti chiede aiuto (e non mi riferisco all’aiuto
economico o materiale in genere). Si diventa santi solo percorrendo la
via della carità evangelica, il resto sono solo dei segni, da
rispettare, ovviamente, ma solo dei segni.
Spero di non essere fraintesa!».
Quante suore ci sono in questo
Convento?
«Adesso siamo in nove».
La vostra è una vita, oltre che di
'ora et labora', anche di comunione fra voi. Quant’è importante nella
società d’oggi, frenetica e superficiale, instaurare un dialogo, non
solo con l’Amico dei piani alti, ma anche con gli altri?
«Bella domanda! Proprio bella, perché centra uno dei punti su cui oggi
si discute molto all’interno degli Ordini religiosi: quello della
fraternità, che è la testimonianza più grande che oggi sia la Chiesa
che il mondo ci chiede. Il fatto di essere comunità, cioè gruppo di
persone che non si scelgono fra loro ma che sono scelte dal Signore a
vivere insieme l’impegno della “sequela Christi”, può essere oggi
monito, esempio e segno che è possibile vivere insieme, fare unità pur
nella diversità dei caratteri, della cultura, anche dell’età. Non
sempre questo è facile, porta con se la sua fatica ma ciò che ci muove
non è l’interesse personale o la simpatia o altro, ma è Cristo che vive
in noi e con noi. Penso che anche questa società che soffre di
superficialità e sbandamenti vari può vedere in noi la possibilità del
dialogo, della convivenza, della reciprocità che è rapporto fraterno ma
solo se fondato sull’Altro, con la “A” maiuscola, quello dei “piani
alti” come dici tu. Mi pare che la società odierna si definisca molto
aperta ma in realtà non lo è; giustifica molti atteggiamenti sbagliati
perché vanno di moda ma isola il diverso, non ascolta la sofferenza che
porta con sé la storia di chi è nell’errore e tende una mano oppure si
chiude perché sa che comunque è marchiato. E’ una società che parla con
tutti, ma solo su…FACEBOOK, in realtà ha paura di instaurare un
dialogo, faccia a faccia, con chi pensa in modo diverso. Forse, allora,
la nostra testimonianza diventa anche quella di riportare i rapporti
con gli altri alla loro genuinità ed essenzialità».
E invece ''il deserto'', ovvero il
silenzio che diviene preghiera, quant’è necessario?
«Il deserto è il luogo di cui abbiamo bisogno ma…periodicamente. Nel
senso che il deserto anche biblicamente è un tempo, uno spazio
determinato nel quale veniamo inviati o “spinti” ad entrare per
riascoltarci. Per ascoltare quella voce profonda che è dentro di noi e
che viene soffocata da mille altri suoni. Quella voce, quando ha la
possibilità di venir fuori – proprio in questo spazio o tempo in cui
non c’è niente e in cui riscopri la necessità dell’essenziale, di ciò
che ti basta per vivere e camminare – quella voce, appunto, diventa
preghiera, gemito, lamento, urlo…ma è sempre quella parte più vera di
te che finalmente può dialogare in tutta sincerità col Padre. Spesso
siamo chiamate a portare l’urlo di chi, in questo cammino, può non
farcela più».
La tua scelta di essere una suora di
clausura rispetto a chi opera per strada, da cosa nasce?
«Nasce dal fatto di essermi resa conto che esiste una povertà e
un’urgenza che non è solo di ordine materiale e alla quale, purtroppo,
si pensa poco o si pensa di poterla affrontare in un secondo tempo, ed
è la povertà interiore, morale, la chiusura dell’uomo di ogni tempo al
progetto che Dio ha per lui. Ho fatto volontariato, aiutavo le suore di
Madre Teresa (Missionarie della Carità), e proprio in quel servizio,
che pur mi piaceva molto, ho capito che se Dio non apre il cuore di chi
hai di fronte, a volte, purtroppo, ogni gesto è un modo per sfruttare
la bontà con la quale si viene raggiunti. Ovviamente, questo il Signore
lo ha fatto intuire a me perché mi chiamava a realizzare questo
progetto, ciò non significa che non sia necessaria quella gente che
“per strada” si fa in mille pezzi per aiutare il prossimo, anzi! Altra
cosa, di cui mi rendo conto ogni giorno di più, è che bisogna
nuovamente indicare all’uomo che “Dio basta”, che Dio è la Verità, la
Bellezza, “ogni Bene, il sommo Bene”, direbbe S. Francesco. Credo che
questo oggi si stia smarrendo ed è bene che qualcuno lo testimoni
ancora con tutta la vita».
Voi vivete, soprattutto, grazie alle
offerte che la gente elargisce. In tempi di crisi economica, il livello
di generosità degli altri è scemato o rimane invariato?
«La Provvidenza non conosce l’andamento delle Borse, non tiene conto
dello Spread ma del cuore dell’uomo dov’è depositato un fondo stabile:
l’Amore. Rimaniamo sempre commosse dal fatto che ogni persona, proprio
perché siamo in tempi di ristrettezze, senta il bisogno di condividere
quel poco o tanto che ha. Mi pare che questo tempo di crisi stia
insegnando all’uomo, di nuovo, l’arte del condividere il pane, del non
sprecare i soldi in cose inutili, di non buttare il cibo avanzato ma di
lasciarlo in frigo per il giorno dopo, se è troppo, o condividerlo con
chi ha meno: ci sta facendo riscoprire la solidarietà che è, comunque,
sempre virtù del povero, raramente del benestante. Ci succede di
condividere con altri un po’ di alimenti e…dopo 10 minuti al massimo,
suona la porta e qualcuno ti lascia qualcosa, magari più di quanto hai
dato. Quasi un incentivo che il Signore ci dà non solo per continuare
ma per fare di più, quando è possibile, perché veramente sperimentiamo
che Lui ha cura di noi e non ci fa mancare il necessario: spesso siamo
solo un canale della bontà di Dio».
Ci racconti un episodio in cui hai
riso di crepa pelle, durante la tua vita monacale, tu che sei il
sorriso fatto persona?
«In questo momento non mi viene in mente nessun episodio in particolare
anche perché, a volte, basta veramente poco per piegarsi in due dalle
risate. E io, in merito, non ho molte difficoltà!».
Il vostro ruolo, oltre le grate, è,
come ci dite, poter essere le radici di un albero. Vuoi spiegarci
meglio questo concetto?
«Sì. E’ un’immagine che si adatta bene alla nostra realtà claustrale,
al nostro essere nella Chiesa ed è un’immagine che uso sempre con i
bambini. Se ci facciamo caso le radici, in un albero, sono la parte che
non si vede ma la loro funzione è vitale per l’albero: succhiano le
sostanze presenti nel terreno e, con una serie di processi chimici, li
trasformano in nutrimento per l’albero; è grazie alle radici che
l’albero cresce e fruttifica, e quanto più l’albero si espande tanto
più le radici sprofondano nel terreno. Vivono nascoste, nel silenzio,
al buio…tutti elementi essenziali per il buon funzionamento della
radice stessa e per la vita dell’albero. Senza di esse l’albero sarebbe
un palo di legno, pronto a cadere al primo colpo di vento. Inoltre, le
radici tengono la terra: quando ci sono valanghe, crepe, le zone più
colpite, solitamente, sono quelle disboscate. Perché? Perché non ci
sono alberi che con le loro radici tengono la terra. Quindi le radici
hanno anche questa funzione, che se mi permetti, direi
“antidispersiva”; come dicevo prima, in questo tempo di distrazione,
tengono ferma la terra, l’uomo, indicandogli qual è la direzione da
prendere: Dio. E’ ovvio, poi, che la radice non avrebbe senso, e non ci
si accorgerebbe neanche della sua esistenza, se non ci fosse un fusto
con foglie e frutti che emerge all’esterno, cioè quelli che, come dici
tu, “lavorano per strada”. Infine, ci accorgiamo che le due parti non
si oppongono ma “fanno” l’albero, lavorando insieme e rimanendo unite».
Voi Carmelitane, durante l’anno,
vivete periodi di totale clausura, ovvero in Avvento, in Quaresima,
nonché ogni venerdì. L’indomani, quando riaprite le porte ai vostri
cari, come viene vissuto questo momento?
«Pensa a una valanga che si riversa al telefono e in parlatorio. Devo
dire che è anche traumatico, perché passiamo da un periodo di silenzio,
di calma nel quale anche noi abbiamo la possibilità di ritemprare lo
spirito (e di riposare la testa!), a un continuo di chiamate e di
suonate al campanello.
Anche questo ti mette nella gioia della festa, dell’accoglienza. Grazie
a Dio, la valanga dura solo qualche giorno, poi i ritmi riprendono
regolari anche se il nostro telefono e il parlatorio non rimangono mai
disoccupati. Ma senz’altro c’è più calma. Non lo si crederebbe ma se
noi possiamo raggiungere gli altri, fisicamente, c’è una marea di gente
che fa riferimento al monastero. E questo è molto bello, anche se a
volte stancante».
Ma perché tu credi in Dio? O meglio, è
necessità oppure è un fatto vissuto sulla tua esperienza di vita?
«Forse è la domanda che in altri termini mi sono posta all’inizio del
mio cammino di discernimento: lavori tanto in parrocchia ma Dio per te
chi è? Qual è il tuo posto nel Suo progetto? Sono domande che ti
sconvolgono perché ti obbligano a passare da cose fatte, forse, anche
per routine a una presa di posizione personale. Credo in Dio perché Lui
ha creduto in me e lo ha fatto fino in fondo dandomi come prova Suo
Figlio stesso. Come diceva Gesù a S. Angela da Foligno: “Non ti ho
amato per scherzo!” E’, insieme, necessità ed esperienza di vita: ne
senti il bisogno perché ne hai fatto esperienza, ed è l’esperienza che
ne hai fatto a orientarti a Lui».
Ritorniamo al 'lavoro'. Vuoi parlaci
un po' delle ''mansioni'' che ciascuna Suora svolge per portare avanti
la comunità?
«Ognuna di noi ha un ufficio triennale che viene assegnato per
decisione della stessa comunità. Ci sono gli uffici detti maggiori (es.
priora, sacrestana, economa) che vengono dati dal capitolo elettivo,
cioè dalla comunità in riunione elettiva triennale; gli altri, di
disbrigo pratico (turni di cucina, portineria, giardino, ecc.) vengono
assegnati dal consiglio della comunità, ovviamente tenendo conto anche
delle capacità pratiche delle consorelle».
Agganciamoci un attimo al lavoro: te
la sentiresti di mandare un messaggio di vicinanza a tutte le persone
che in questo momento stanno manifestando per il diritto al lavoro?
«Non siamo vicini a loro solo con la bocca, come sembrerebbe, ma anche
nelle nostre famiglie si soffre la mancanza di lavoro per licenziamenti
o precarietà varie, quindi è un problema che ci tocca anche nella carne
e non è solo un fatto di solidarietà. Una cosa che mi sento di dire è
quella di far sentire sì la propria voce, manifestare i propri diritti
ma tenendo conto che abbiamo anche il dovere di non ledere la libertà e
il diritto altrui. Spesso, purtroppo, tante manifestazioni, pur
partendo da una base di ragione, scadono nel torto proprio per questa
imposizione, presunzione di gestire, anche negandoli, i diritti dei più
deboli. Questa non è più giustizia e non può chiedere giustizia chi,
per primo, non se ne fa garante nei confronti dell’altro».
Il noviziato è il periodo di tempo in
cui si sceglie di continuare o meno il percorso religioso. Quanto dura
questo tempo di riflessione prima dello sposalizio con Gesù Cristo?
«La tua è una definizione molto “romantica” di noviziato. In realtà,
anche la Chiesa lo intende come un tempo di fidanzamento, tempo in cui
si sperimenta se l’altro fa per me e viceversa. Nel nostro caso,
l’esperimento è tutto della novizia perché se il Signore si impegna con
qualcuno, solitamente, non è Lui a “mollare”. Comunque, da noi la
durata è di due anni ma varia a secondo degli Ordini e
dell’impostazione della formazione».
Castità, Povertà ed Obbedienza sono i
tre voti che una monasta abbraccia. A tuo modo di vedere qual’è il più
impegnativo?
«Il più impegnativo? Per quanto mi riguarda vanno insieme. Quando
obbedisci senz’altro vivi anche la povertà, cioè il dover dipendere
dall’indicazione di un altro, senza poter disporre, in quel caso,
liberamente di te o delle cose in tuo uso; allo stesso tempo si attiva
anche la castità, che non è solo o semplicemente assenza di rapporti
sessuali ma liberare il cuore dai propri gusti, desideri, modalità,
scelte. Quindi vanno insieme. Se oggi c’è minestra e invece vorrei
pasta asciutta: obbedisco a chi ha scelto il menù, accolgo quanto mi
viene dato nel refettorio comune, e “levigo” quel vorrei o non vorrei
che salta sempre fuori. Ovviamente, poi ognuna si scontra maggiormente
con uno dei tre, spesso dipende anche dal carattere o dall’educazione
ricevuta».
Libertà per voi è oltre le grate.
Domanda asciutta: perché?
«Perché sono conseguenza della libera scelta di rispondere alla
chiamata del Signore. Nessuno ci ha messo dentro, siamo venute noi. E
poi, veramente, scopri ogni giorno come le grate diventano simbolo di
una realtà di vita molto semplice, essenziale. Non usi delle cose o
delle mode perché di fatto si può vivere anche senza. Anche i rapporti
con le persone…in quel tempo, in quello spazio…poi ognuno deve
continuare il proprio cammino. Sì, quei volti te li porti sempre dentro
ma sai che non ti appartengono: tu sei solo una stazione di servizio,
ma, fatto il rifornimento, l’auto deve procedere verso la méta fissata».
Le notizie sul mondo esterno da dove
le attingete e, soprattutto, vi sentite informate a sufficienza?
«Per scelta non abbiamo la televisione e credo che non ci sia da
pentirsene. Gli orari dei programmi, inoltre, non coincidono con i
nostri ritmi. Ascoltiamo le notizie dalla radio (solitamente durante la
ricreazione, dopo pranzo), riceviamo alcuni giornali, abbiamo la
connessione a Internet e poi c’è la gente che non perde tempo nel
riferirci l’ultima notizia, se è importante. Sì, siamo informate anche
se ovviamente non su tutto in modo esaustivo (ma questo accadrebbe
anche fuori) e senz’altro non in modo… asfissiante».
27 Ottobre 1986. La Tregua di Dio in
Assisi. È l’incontro consegnato alla storia universale per il volere
del Beato Papa Giovanni Paolo II e delle Nazioni Unite che hanno
radunato 160 capi di 12 diverse religioni per pregare insieme contro
l’odio e la violenza nel mondo. Secondo te pregare Cristo piuttosto che
Buddha, nel cammino dell’uomo, quant’è importante? «In questi
incontri ogni religione esprime, davanti al mondo, l’impegno di vivere
e promuovere la pace. Spesso però si definiscono gli “atteggiamenti” di
pace, senz’altro codificati nel cuore stesso di ogni forma di
religione. Credo che chiunque voglia mettersi in “contatto” con la
divinità debba sentire forte l’esigenza di un’armonia con se stesso e
con quanto lo circonda. Ecco, anche lo sforzo dell’ascesi propria di
ogni spiritualità: l’uomo che si eleva a dio anche attraverso il
rispetto del creato. Ma per il cristiano è diverso: non si impegna a
vivere un atteggiamento di pace, questo è conseguenza; il cristiano è
chiamato a vivere la pace, anzi la PACE che è Cristo stesso. “Egli è la
pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo” dice san Paolo, e S.
Ambrogio dice che quando parliamo di bellezza, di giustizia, di verità,
di pace, parliamo di Cristo. Capisci allora che Buddha e Cristo, nel
massimo rispetto, non sono la stessa cosa per l’uomo. Ciò che le
differenzia, e non è un optional, è l’Incarnazione: Dio è entrato nella
storia, si è impastato le mani in questa storia; è la Passione – Morte
– Risurrezione: Dio in questa storia si è impegnato fino alle estreme
conseguenze per dire all’uomo che il Suo nome è Amore. L’uomo-cristiano
è chiamato, anch’egli, a coinvolgersi in questo mistero di Amore che dà
senso pieno alla sua vita e nuova identità, non come essere “altro da
se” ma come piena realizzazione di ciò che è pienamente: figlio di Dio
e Sua immagine, rientrato, grazie a Cristo, in piena comunione con Dio.
Grazie all’amore rivelato, pienamente in Cristo, l’uomo può nuovamente
“passeggiare nel giardino con Dio”, come ci dice il libro della Genesi,
ma non estraniandosi dalla storia ma immettendosi in essa a partire da
Cristo, e immettendo in essa il germe di bene che è Cristo. Credo che
questo possa bastare, anche se non si esaurirebbe mai il discorso a
fare la differenza tra Cristo e Buddha nel cammino dell’uomo».
Ci daresti qualche consiglio riguardo
alle letture da spulciare dentro i Vangeli?
«La Chiesa è Maestra ma è anche Madre, e ogni madre sa di cosa ha
bisogno il proprio figlio. Per questo l’anno liturgico è stato
articolato in modo da farci leggere buona parte della Sacra Scrittura,
e in particolare i vangeli. Credo, quindi, che la Parola che ci viene
consegnata ogni giorno nella liturgia, sia la migliore guida alla
lettura dei vangeli…quando, naturalmente, ci si accosta ad essi con
fede e non per curiosità o a mò di lotteria. Purtroppo, molti lo fanno:
“vediamo cosa mi dice oggi il Signore”…e se quello che Gli dice non
piace…chiudono immediatamente».
Grazie a te, grazie alle tue
consorelle per averci offerto la chiave di casa vostra, ne siamo
felici.
«Grazie a voi per la pazienza».
Arcangelo Signorello