Ho conosciuto
Vincenzo Consolo a Milano, moltissimi anni fa. Mi accolse nella sia
casa di via Volta, nella quale abitava da più di vent’anni, dopo
l’uscita del suo fiammeggiante “Retablo”, pubblicato nella collana “La
Memoria” di Sellerio e con il quale lo scrittore siciliano si aggiudicò
il prestigioso “Grinzane Cavour”. La sua era una casa silenziosa ma non
solitaria, spaziosa e parca ma ricca di libri e di quadri: non quella
di un intellettuale radical-chic ma quella di un individuo impegnato e
immerso nella Storia. Molti di quei quadri erano del suo amico pittore
Fabrizio Clerici. Confortati da una luce che grandi tende verdi
facevano discreta, trascorremmo insieme un lungo e tiepido pomeriggio
di maggio parlando di tante cose e, ovviamente, della Sicilia.
«Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di
volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della
costa, inoltrarmi all’interno, ma sostare in città e paesi, in villaggi
e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una
voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma
sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare
prima che uno dei due sparisca per sempre».
Questa pagina che lesse a voce alta da “Le pietre di Pantalica” - una
pagina fatale, una dichiarazione di poetica – aprì uno squarcio
illuminante sul topos destinale e lacerante della sua impostazione
ontologica e letteraria: la memoria dall’esilio, l’evocazione lontano
dalla Sicilia sulla Sicilia. “La mia - disse - è stata una
vocazione precoce alla partenza, dettata sia dalla mia posizione
geografica - S. Agata di Militello sul versante tirrenico della Sicilia
- balcone sulla penisola, sull’universo ambiguo e indecifrabile delle
sue città, sia dalla volontà di schivare ogni mediterraneità,
scegliendo subito l’impegno e l’indagine della realtà come avevano
fatto Levi, Silone, soprattutto Vittorini e Sciascia. Dopo l’università
Cattolica, Milano divenne la mia città.”
La ferita dell’aprile» che Mondadori pubblicò appunto nel’63 rispecchia
quegli anni d’impegno, giustifica la propensione verso la storia che è
stata decisiva per la sua vita di scrittore. Eppure, aggiunsi, dopo
tanti anni hai pubblicato un romanzo proprio in Sicilia...
“Ero l’unico scrittore siciliano a non aver pubblicato un libro con
Elvira Sellerio nonostante ci fossero state delle affettuose
collaborazioni. “Retablo” mi sembrò il libro più opportuno per essere
pubblicato in Sicilia. Senza l’aiuto di Elvira avrei difficilmente
portato a termine il romanzo: è stata lei che mi ha indotto a finirlo
durante un lungo agosto milanese”.
«Retablo» è un libro particolarissimo, sorvegliato, che dopo la
parentesi ilare di «Lunaria» ripropone impianto e motivi già svolti ne
«Il sorriso dell’Ignoto Marinaio». Potrebbe rappresentare la chiusura
finale di un ciclo, di una idea, di un modo di fare letteratura:
probabilmente il frantumarsi di una speranza storica. “Il sorriso
dell’Ignoto Marinaio” è il risultato di una speranza storica che si
spegne negli anni, nel contesto delle vicende siciliane degli ultimi
vent’anni del dominio borbonico, quelle fatte di rivoluzioni contadine
e liberali: la beffa della vita e della letteratura. Decisi quasi di
ripudiare il romanzo storico. Fu da quella delusione che nacque
“Lunaria”. Invece “Retablo” nasce all’insegna del libro altro, diverso:
volevo scrivere un libro singolare nel quale ritornasse la Storia, non
la storia dei vincitori, ma la storia degli umili”.
E come nei precedenti romanzi anche ne “Le pietre di Pantalica” la
grande protagonista è la storia. La storia degli esclusi, dei reietti,
non certo quella meschina e silenziosa, eguale e rassegnata dei
protagonisti gattopardeschi, nè quella trionfante dei vincitori, dei
nobili, dei mafiosi. Quella di Vincenzo Consolo è una storia «altra» -
di sofferenti e di sofferenze – contro la storia di sempre «che
ripetono baroni, proprietari e alletterati con ognuno che viene qua a
comandare, per avere grazia e giovamenti e soprattutto per fottere i
villani».
La storia di Consolo dimentica i miti, sfugge ad ogni grecità di
maniera e si fa viaggio nella Sicilia allucinata di oggi, nella Sicilia
della degradazione della vita e della storia, delle sue città, dei suoi
figli. E’ probabilmente, anche se in misura minore il viaggio,
nel parlato di quella lingua siciliana, che parte da lontano: da Enrico
Pirajno barone di Mandralisca, dal servo Isidoro fino a Vito
Parlagreco, a don Gregorio, al protagonista della spietato finale – “Il
memoriale di Basilio Archita” - attraverso il quale il logos di Consolo
si fa stile crudissimo ed amaro, diventa analisi, resoconto, spietata
denuncia.
Nasceva forse da qui la necessità di rompere il codice linguistico:
dinnanzi all’adeguamento della letteratura alla informazione l’opera di
Consolo voleva essere l’opposto della lingua della comunicazione,
sostenendo quel preziosismo linguistico e quella ricerca lessicale che
ha nella letteratura siciliana - pensiamo a Pizzuto e a D’Arrigo - una
precisa tradizione.
“Il mio è un linguaggio che si rivolta contro la storia, che tiene
conto di ciò che si dimentica, di ciò che si espelle. I miei non sono
dialettismi, ma fonemi di una lingua “altra” che non ha niente a che
vedere con l’espressionismo di Gadda nè tantomeno con certo rondismo
alla moda.”
Da questo lavoro archeologico affiora così una Sicilia linguisticamente
lontanissima ricostruita con ricerca continua e minuziosa, che sembra
richiamare quasi un altro ordito barocco di Sicilia: quello di
Bufalino. “Conosco Bufalino e lo apprezzo ma non mi sento di aderire al
suo universo semantico, credo anzi di essere nel segno opposto: la mia
è una scrittura verticale fatta di innesti alla Pasolini,
contrassegnata da stratificazioni, non italiana. Quella di Bufalino al
contrario è una scrittura orizzontale, pura, specificatamente toscana,
niente affatto siciliana”. Capivo che attraverso la scrittura Consolo
ricreava una nuova morale della vita e della storia.
“Credo moltissimo nel compito dello scrittore: è lui la coscienza
critica della società. La sua è una presenza irrinunciabile per la
testimonianza e per l’impegno. Come scrittore sento quasi il bisogno di
andare contro, di infrangere le regole, come si dice: di sporcare il
nido”.
Vincenzo Consolo continua a parlare, mi racconta con piglio della sua
Milano decaduta, si accende di nostalgia sfogliando le foto della madre
scomparsa, mi dice dei suoi giorni in Sicilia, delle gite insieme a
Sciascia, a Sebastiano Addamo, a Lucio Piccolo ad Antonio Castelli.
Ma l’amicizia più forte è quella, mi conferma, che lo legava a Leonardo
Sciascia...
“Leonardo è una persona che mi ha insegnato tantissimo, è l’altra
faccia del mio modo di essere. In questa Sicilia del disordine, del
marasma e del quotidiano pericolo di perdere la ragione, è stato
l’immagine della forza della ragione, la luce dell’ intelligenza. Senza
dubbio la mia formazione passa per i suoi libri. “Le parrocchie di
Regalpetra” con “Conversazione in Sicilia” di Vittorini sono stati i
miei libri rivelazione, quelli che mi hanno aiutato a decifrare la
Sicilia e a capire me stesso”. Ricordò un altro amico straordinario,
che definì il mondo della poesia pura: Lucio Piccolo.
“Lucio è stato un uomo sganciato dal contesto sociale, è stato un poeta
memoriale per eccellenza e ha scritto da re perché solo un re può
narrare in modo perfetto, perché non ha l’obbligo della critica.
Soltanto i fanciulli e i re narratori sono sciolti dalla critica
storia: Piccolo è stato poeta puro in questo senso e fa parte di me
anche se avverto ovviamente la presenza di Sciascia. Continuo cioè in
quelle che scrivo ad oscillare tra il lirismo e la prosa, la logica e
l’accensione poetica, a muovermi tra mondo della natura e mondo della
storia”.
Mi parlò delle sue letture, della buona impressione che aveva ricevuto
dai libri di Daniele Del Giudice e di Marco Lodoli. Ammirava tantissimo
Celati e Fortunato. Ammoniva i giovani che si accostano alla
letteratura. E le sue parole risuonano ancora modernissime e presenti:
“Uno dei segni importanti della nostra epoca sono proprio le
sostituzioni della verità con qualcosa che assomiglia alla verità. Sta
nascendo una nuova letteratura ma i nuovi scrittori devono stare
attenti alla forza industriale di chi produce libri, dalla vanità delle
spettacolo, dalla ambizione del presenzialismo”. Poi Quando gli
chiesi di un definitivo ritorno in Sicilia fece una smorfia
involontaria col viso, e cominciò a fissare la pesante tenda verde sul
balcone che attenuava i rumori della città. Per continuare a scrivere
forse gli era indispensabile prolungare quella fuga iniziata tanti anni
fa, vivere il tempo sospeso a sentire necessaria e sublime la crudele
lontananza della realtà.
Giuseppe Condorelli
condorg@tiscali.it