Mi reco, spesso, in sala
docenti, a sentire i melanconici ricordi dei miei cari colleghi del sud
e le voci suadenti del “clan bresciano”, irte di moine e di spine! E da
quel luogo pieno di scaffali e d’ombra, raccolgo storie di vita e di
scuola, da gustare e d’appuntare sul mio inconsueto taccuino di
“inviato speciale”. Altre volte ho narrato di colleghi poeti e pittori,
di viaggi d’istruzione e di cene di gala, di interviste speciali e di
riforme epocali. Adesso, vi racconterò l’insolita avventura di un
insegnante di religione venuto, direttamente, dal vicino…Ciad!
Mi chiamo Simon
Ngomnan, ho 35 anni, e vengo dal Ciad. Sono giunto in Italia il
3 agosto 2005, tramite i missionari comboniani. Ricordo ancora il mio
primo viaggio da N’djamena, la capitale del mio paese, sino a Roma, in
aereo, sembrava interminabile! Il primo impatto, con il popolo
italiano, lo confesso, è stato difficile. Partire per una terra
straniera è sempre una forte esperienza di vita; richiede di mettere da
parte le proprie certezze e sicurezze (casa, famiglia, amici, ecc…) per
entrare, come bambini, in un mondo diverso, dove ci è chiesto prima di
tutto di inserirci in una cultura differente, in una lingua, usi,
costumi e tradizioni totalmente nuovi.
Quali sono state le maggiori difficoltà che hai riscontrato?
«All’inizio ho dovuto affrontare tanti piccoli e grandi problemi! Nei
primi mesi di vita in Italia, niente è stato facile per me. Intanto,
vengo da un paese dove fa sempre caldissimo e la temperatura, in
estate, arriva fino 45-50, gradi all’ombra. Ecco all’improvviso il mio
corpo si trovava nel freddo dell’Italia. Soffrivo tantissimo e soffro
ancora oggi di questo repentino cambiamento climatico! E poi, forse, il
problema maggiore: la lingua. Per imparare la vostra bella lingua, ho
iniziato subito un corso di lingua italiana all’università Gregoriana,
a Roma, per una durata di circa cinquanta giorni, e poi l’inizio dei
miei studi universitari. All’inizio, all’università, prendevo gli
appunti sia in francese sia in italiano, non conoscendo bene la lingua
italiana e non avendola mai studiata prima, nel mio paese d’origine».
Ma quali sono le principali
differenze, le “anomalie”, rispetto al tuo paese d’origine, che ti
hanno colpito?
«Tutto mi sembrava diverso: anche il semplice modo di salutare tutte le
persone per rispetto e educazione, che era una cosa normale e un gesto
di accoglienza nel mio paese, cambia decisamente, per il fatto che qua
si saluta solo a chi conosci!!! Sembrerà banale, ma vero: all’inizio
sono stato anche un po’ “scandalizzato” a vedere due ragazzi innamorati
che si baciavano pubblicamente, sia in treno sia sull’autobus».
Come sei diventato insegnante di
religione?
«Ho cercato di sfruttare tutto il tempo e le opportunità a disposizione
per realizzare il mio sogno: quello di studiare. Bisogna darsi da fare
per guadagnarsi da vivere. Infatti, l’uomo tende naturalmente a cercare
quelle condizioni di vita che offrono opportunità più grandi e
permettano un benessere maggiore. C’è una radicale inquietudine
nell’uomo, che non gli permette mai di accontentarsi di quanto conosce
e possiede e lo spinge a una conoscenza sempre più ampia, e a una
crescita incessante dal punto di vista economico, culturale, religioso
e relazionale. Dopo anni di fatica e di difficoltà, il 2 luglio 2010,
finalmente, ho superato l’esame di laurea in Scienze Religiose, presso
l’Università Cattolica di Brescia. Così, da quest’anno, il mio titolo
di studio mi ha aperto la porta al mondo lavorativo come insegnante –
supplente di religione nella scuola italiana».
Come vedi la scuola italiana? Ti piace
fare l’insegnante?
«Questi tempi sono stati per me le prime esperienze di inculturazione,
d’integrazione e di apertura ad un mondo diverso, da scoprire e da
vivere.
Sono contento e soddisfatto di quanto posso dare e ricevere come
insegnante di religione; per me è l’esperienza più bella e concreta
della inculturazione: entrare nella vita di ogni giorno, nella scuola e
nel mondo dei ragazzi: conoscerli, ascoltarli, sentirli parlare di Dio!
»
E in classe come si comportano i
ragazzi? Come ti hanno accolto?
«A dire il vero, ho trovato in loro una grande apertura culturale, di
dialogo e di scambio interculturale, con le loro domande sul senso
della vita, sull’esistenza di Dio o non, sul come e perché sono divento
cristiano…
Anche se oggi non è semplice parlare di Dio ai ragazzi, io cerco sempre
di partire dall’ascolto della loro esperienza quotidiana per poi
risalire a Dio. Infatti, molti di loro sono contenti di me e mi
vogliono tanto bene; forse anche per il fatto che sono per loro il
primo insegnante di “colore”!!!
Insomma, i miei alunni sono curiosi e divertenti, non solo per la
materia che insegno, ma anche per la mia esperienza di vita cristiana
di origine e di tradizione africana».
Tu parli spesso di inculturazione. Ma
secondo te, è più facile un processo di integrazione o di assimilazione
tra gli immigrati e gli italiani?
«Inculturazione per me ha un significato: vivere in questo paese che mi
ha accolto, imparare bene la sua lingua, apprendere il ritmo di vita e
accettare gli usi, abitudini e costumi che sono diversi dai miei. Con
il trascorrere degli anni ho imparato a conoscere e ad amare meglio
l’Italia e gli italiani, cercando di imparare quello che, a mio parere,
è giusto e buono della cultura italiana, senza rinnegare la mia cultura
africana di origine. Penso che non si può lasciare all’iniziativa di
noi immigrati tutta la fatica di inserirci nella cultura italiana;
dovrebbe essere anche la comunità italiana a farsene carico in modo
esplicito. È importante che i nuovi arrivati si integrino nel
territorio in cui risiedono. Ciò richiede che si creino legami di
conoscenza e di stima con i residenti; ci vogliono persone che prendano
l’iniziativa di andare incontro ai nuovi arrivati, di interessarsi di
loro, di introdurli, poco alla volta, nei diversi luoghi e alle diverse
iniziative della società italiana. Ciò richiede momenti di dialogo,
confronto e ascolto con tutti. Questi momenti, se sono compiuti bene,
favoriscono l’incontro tra le persone, sciolgono alcuni pregiudizi,
sospetti e timori instintivi, creano ponti di collegamento che superano
l’isolamento, diminuiscono la paura e aiutono alla convivialità tra le
persone».
Quali sono i tuoi progetti futuri?
«Il mio maggior problema, per adesso, è il ricongiungimento con mia
moglie, che ho sposato appena un anno fa e che non vedo da molti mesi.
Ci sentiamo solamente al telefono anche perché Internet nel mio paese
non è molto diffuso. Abbiamo iniziato la pratica di ricongiungimento
familiare, ma le procedure burocratiche italiane sono troppo lente,
lente… Se un immigrato è in regola e lavora, non è lecito che possa
vivere con la sua famiglia? La persona umana non può essere pensata
senza la sua famiglia!».
E si, forse, Simon, ha ragione! Ha individuato un problema “atavico”,
tipico delle nostre parti: la lentezza delle carte bollate!
«Voglio concludere, ricordando quanto ha detto san Paolo: “Non è
infatti per me un vanto predicare il vangelo; è un dovere per me: guai
a me se non predicassi il vangelo!” (1Cor 9, 16). Rendo grazie a Dio e
a tutti i missionari e, in modo particolare, a quei italiani che sono
venuti nel Ciad a predicare il vangelo; grazie a loro sono diventato
cristiano e insegnante di religione. Che Dio li benedica!».
Angelo
Battiato (inviato speciale a Brescia)
angelo.battiato@istruzione.it