Anche quest’anno,
a Misterbianco, non ci sarà il Carnevale! D’altronde, ormai, non è più
una novità eclatante. Nei giorni scorsi un bizzarro manifesto murale
comunicava che anche per il 2012 il paese dovrà fare…penitenza! Ma
tant’è!
Ed allora meglio guardare altrove e festeggiare il re Burlone in terra
lombarda, tra i boschi alpini, le fresche acque del Garda ed il fiume
Mella! Perché anche da queste parti impazza il Carnevale, con frizzi,
lazzi, cotillon…e tante tradizioni!
I proverbi bresciani ricordano che il Carnevale cominciava il 17
gennaio, giorno di Sant’Antonio Abate: “Sant’Antòne dé zenér,
Sant’Antòne fritolér”, vale a dire, portatore di frittelle; la festa
durava sino alla mezzanotte di martedì grasso che precedeva il
mercoledì delle Ceneri.
La festa di Carnevale, in provincia di Brescia, da sempre, è stata
influenzata dalle tradizioni veneziane. Da tali consuetudini, deriva
anche il detto assai diffuso, “tagliare la testa al toro”, come dire,
facciamola finita!
La locuzione affonda, appunto, nella vicenda di un giovedì grasso a
Venezia in cui gli abitanti festeggiavano la vittoria della Repubblica
su Ulrico, patriarca di Aquileia, devoto all’imperatore, il quale aveva
fatto in modo che papa Adriano IV, emettesse una bolla per assegnare
tutta la Dalmazia al Patriarcato di Grado. Il doge Vitale Michiel II,
annientò il patriarca e i dodici feudatari ribelli che, condotti a
Venezia, vennero poi rilasciati per intercessione del pontefice. I
magistrati veneti chiesero, però, come risarcimento e memoria della
vittoria, che ogni anno il patriarca di Aquileia, mandasse ai
veneziani, nel giovedì grasso, un toro e dodici maiali ben pasciuti.
Gli animali venivano custoditi, quindi, come prigionieri, in Palazzo
Ducale, e venivano macellati per tutto il popolo. Da tale usanza e
derivato appunto il detto, “tagliare la testa al toro”, cioè, togliere
di mezzo gli ostacoli, risolvere in maniera definitiva il problema.
Ma sono tante le tradizioni carnascialesche a Brescia. Innanzitutto,
c’è il Carnevale di Bagolino, d’un piccolo paese bresciano dall’aspetto
medievale della Valle del Caffaro, famoso anche per i prodotti caseari
(in particolare per il formaggio Bagòsso).
Il Carnevale di Bagolino (o carnevale Bagosso) risale almeno al XVI
secolo, come documentato da scritti conservati nell’archivio comunale.
Una deliberazione comunale del 1518 disponeva di ricompensare con una
formaggio la Compagnia di Laveno che era intervenuta a rallegrare la
festa di carnevale. La festa si articola in due manifestazioni
distinte, animate rispettivamente dalle eleganti figure dei Balarì
(ballerini e suonatori) e dalle figure grottesche dei Maschér
(maschere).
I Balarì, che si esibiscono esclusivamente il lunedì ed il martedì di
carnevale, rappresentano l’aspetto più spettacolare del carnevale
Bagosso; essa si è imposta all’attenzione degli studi etnografici per
la originalità delle musiche e per l’elegante complessità delle danze
che vengono eseguite nelle strade e nelle piazze del paese. Il violino
è lo strumento che detta la melodia conduttrice dei vari brani che
compongono l’ampio repertorio musicale che accompagna i balli.
Molto caratteristici sono i costumi dei ballerini, a cominciare dal
cappello in feltro interamente ricoperto da un lungo nastro rosso
sapientemente ripiegato, ornato di ricami, di monili e di fettucce
multicolori che formano un grande fiocco. Sulla fettuccia rossa sono
cuciti accuratamente monili d’oro (catene, spille, orecchini, anelli
etc...) di famiglia o presi in prestito. Per questo motivo, i “balarì”
non si sibiscono all'aperto in caso di pioggia. Il filo bagnato,
sollecitato dai salti e dai movimenti dei ballerini, rischierebbe di
cedere, con grave rischio di perdere l’oro prestato. Il volto è
nascosto da una maschera priva di espressione di color avorio, un tempo
di tela e spalmata all'interno di cera (perché il sudore del ballerino
non la bagnasse). Formano inoltre il costume un’ampia fascia di seta,
posta a tracolla sulla spalla sinistra, che reca sontuosi ricami di
fiori, passamanerie o inserti di pizzo all’uncinetto. Essa scende sul
vestito scuro, con giacca e pantaloni ai ginocchi; sulle spalle è posto
un grande scialle a frange che cade lungo la schiena e viene fissato
sotto le spalline (questo particolare è apparso dopo il 1915).
Completano il costume i guanti bianchi, le calze (anch’esse bianche,
lavorate a mano con i 4 ferri, con motivi tutti differenti di trafori,
nocciole, trecce e fermate al polpaccio da una passamaneria tessuta al
telaio in loco) e le scarpe nere.
Le maschere, i maschér, hanno un carattere più popolano, riferendosi
alla tradizione della burla carnevalesca consumata sempre mantenendo
incognita la propria identità. I personaggi si muovono disordinatamente
tra la folla, con maschere grottesche o paurose e zoccoli di legno che
producono frastuono sul selciato delle vie; prendono di mira le persone
che vogliono canzonare, toccandole nei genitali, usanza che ricorda
antichi rituali di fertilità. Indossano i costumi, sia maschili che
femminili, tipici della tradizione bagossa, di solito si muovono in
coppia travestiti da vecio e vecia. A nascondere la identità dei
maschér deve contribuire anche la goffa postura, la camminata
strascicata e l’uso di una voce in falsetto. E mi sovvengono gli
scherzi e la voce in falsetto delle mascherine con il dominò del nostro
antico carnevale misterbianchese! È proprio vero, come diceva mia
nonna, “tuttu ‘u munnu è paisi!”. Paese che vai, carnevale che trovi!
Angelo
Battiato (inviato speciale a Brescia)
angelo.battiato@istruzione.it