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Aggiornamento: Una nuova scuola per l'Italia inseguendo gli esempi migliori

Rassegna stampa
scuola italiana Lo scenario è fin troppo familiare: di scuola si parla solo per lamentare il precariato dei suoi addetti, e con maggiore coinvolgimento emotivo di bimbi maltrattati da maestre «malate». L'università alla deriva par che non importi a nessuno: e la domanda interna è per la normalizzazione. Sfilacciata, e alle prese con bisogni che nell'Italia nuovissima si affacciano attraverso l'emergenza e non producono «austerità», bensì sprechi e corruzione come nel resto di un Paese di furbi, non è neppure in grado di accogliere gli esuli che non trovando laboratori e biblioteche non saprebbero come mettere a frutto competenze collaudate, e in taluni casi genialità.
Per un Paese austero una scuola sobria e competente. E qui insorge la domanda abusata: da dove cominciare, dal Paese o dalla scuola? Non riprendo le critiche, peraltro condivisibili, nei confronti della (contro)riforma Gelmini. Un gran pasticcio, che voleva rendere invisibili i mali della scuola, e ha solo disgregato un ordinamento incoerente, tra pochi spazi dinamici, ed aree fin troppo vaste di sclerosi: queste seconde han riguardato soprattutto la secondaria superiore e l'università. Ed ha posto in evidenza la riduzione del privato, ecclesiastico o laico, la cui concorrenza al pubblico era resa possibile dalle cospicue sovvenzioni e facilitazioni di Stato e Regioni.



Non è paradossale che un governo di professori consideri la scuola al pari della Sanità un luogo di sprechi, e si impegni a contenerle chiudendo il rubinetto delle risorse e ricorrendo ad una razionalizzazione e accorpamenti territoriali? L'arretramento «ideologico» è di tutta evidenza: lavoro, salute, formazione - i bisogni della modernità, che il pur difficile tempo contemporaneo aveva promosso a diritti - tornano ad essere bisogni e, come tali, sono posti in competizione «globale» con i diritti umani, con l'ambiente minacciato da degrado, con le nuove libertà del multimediale.

Frattanto era maturata una difficoltà di dialogo fra le generazioni, che aveva conosciuto il suo punto critico nella cosidetta «crisi della famiglia», un vuoto che la scuola di ogni ordine e grado ha subìto dall'inizio negli anni Settanta, chiamata a supplire con arbitrarie oscillazioni fra tolleranza e autoritarismo.

E questa vicenda, che ha visto una crescente divaricazione laddove si presupponeva una sinergia, si è rappresentata come un aspetto della deriva socio-culturale, del cancro di una società ove intere generazioni si sono consumate nell'attesa di un accesso al mondo del lavoro che non c'è stato. E la scuola ha condiviso il diffuso scetticismo: a che serve formarsi per un mercato del lavoro vieppiù asfittico, e per il quale sono inutili o obsolete le competenze ottenute in passato, e mai poste con continuità alla prova di applicazione/sperimentazione.

Eppure la diffusione ed il prestigio dei linguaggi non verbali ha chiamato ad un ruolo egemone il suono o il disegno, il gesto ed il racconto: ci si è acculturati fuori dal tradizionale perimetro scolastico; ed il docente, demotivato e alle prese con la decadenza/metamorfosi del medio ceto cui gli era riuscito di appartenere, ha lasciato che i suoi linguaggi si facessero impermeabili alle curiosità, alle pratiche, ai bisogni degli allievi.

L'Italia, e l'Europa non hanno avuto una scuola «del tempo» perché non hanno avuto un progetto, un'idea di Paese da desiderare e provare a realizzare. E i docenti hanno pigramente seguito il modello dei padri, che avevano atteso (e ricevuto) dalla politica obiettivi ideali. Quella che fu definita negli anni Settanta/Ottanta la «morte delle ideologie» fu un classico esempio della pratica di buttar via il bambino con l'acqua sporca del suo bagno. Abbiamo impiegato più di un quarto di secolo per accorgecene, e non abbiamo fatto quasi nulla per invertire la rotta. E mi soffian, gelide, sul collo le parole scultoree di Tacito: Antehac flagitiis, nunc legibus laboramus. Non v'ha guadagno nel sostituire inutili leggi all'ignavia.

Non dalla scuola ma dal Paese bisogna allora ricominciare, senza però riproporre (come sta accadendo con il miraggio della «crescita») il modello retorico della fase due. Bisogna creare o adeguare un corpo docente del tutto inadeguato a mutar registro, interpretando la formazione non più come nel passato (di cui il presente è prolungamento inerte) un processo chiuso di conoscenze e di strumenti professionali, ma un'apertura creativa ai fundamentalia, su cui edificare in una realtà ad ali variabili competenze ed applicazioni rispondenti ai bisogni e vecchi e nuovi. Essenziale è a tal proposito l'accesso e la disponibilità adeguata dei laboratori - che saranno per gli uni le biblioteche (nella forma oggi allargata dei grandi depositi digitali) e per tutti gli spazi strutturati di sperimentazione - ove sia costante il circolo tra tirocinio ed impiego.

Chi non coglie la rivoluzione persino nel terreno dei linguaggi, delle tecniche e del costante travaso del mito al rito?
Al docente di nuovo modello si accompagna lo studente la cui formazione è oggi una variabile della desiderata dimensione esistenziale. Da qui la constatazione amara che il Paese si scopre oltrechè migliore della sua classe politica migliore e diverso dal suo non più prestigioso corpo docente. A quando l'inizio del nuovo? O dovremo ancora inseguire la rottamazione dei precari, e la violenza dei maestri (e delle maestre) maneschi e pedofili? Quando finiremo di consolarci di uno stato di degrado guardando a chi sta peggio, e non seguendo - con lo stile che pur ci appartiene - l'esempio dei migliori? Abbiam lasciato cadere il modello tedesco di «resurrezione della Germania est», quando da più parti si guardava all'esaurirsi nell'abbandono e nello spreco degli ultimi stracci del meridionalismo piagnone. Ma cos'ha di diverso la puntiforme rivolta dei forconi, o la stupidità neo-leghista del ritorno al dialetto?

Giuseppe Giarrizzo
La Sicilia








Postato il Giovedì, 16 febbraio 2012 ore 08:00:00 CET di Michelangelo Nicotra
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