Come
celebrare la Giornata del Ricordo? Come spiegare il massacro delle
Foibe? Come raccontare lo sterminio perpetrato per motivi etnici e
politici ai danni di oltre diecimila italiani (la cifra non è ancora
ufficiale) della Dalmazia, dell’Istria e del Venezia Giulia, gettati
vivi nelle grotte carsiche tra il 1943 e il 1947? Come spiegare l’odio,
la ferocia, il male? Il nostro dovere, innanzitutto, è di ricordare,
perché anche “questo è stato”. Quest’anno, in diretta dal passato,
voglio rievocare l’orrore delle Foibe con le testimonianze, vibranti e
tremende, dei pochi italiani sopravvissuti. Il racconto di Giovanni
Radeticchio di Sisano, uno dei pochi superstiti:
"...addì 2 maggio 1945, Giulio Premate, accompagnato da altri quattro
armati, venne a prelevarmi a casa mia con un camioncino sul quale erano
già i tre fratelli Alessandro, Francesco e Giuseppe Frezza, nonché
Giuseppe Benci. Giungemmo stanchi ed affamati a Pozzo Littorio dove ci
aspettava una mostruosa accoglienza; piegati e con la testa all’ingiù
fecero correre contro il muro, Borsi, Cossi e Ferrarin. Caduti a terra
dallo stordimento vennero presi a calci in tutte le parti del corpo
finché rinvennero e poi ripetevano il macabro spettacolo. Chiamati
dalla prigionia al comando, venivano picchiati da ragazzi armati di
pezzi di legno. Alla sera, prima di proseguire per Fianona, dopo trenta
ore di digiuno, ci diedero un piatto di minestra con pasta nera non
condita. Anche questo tratto di strada a piedi e per giunta legati col
filo di ferro ai polsi due a due, così stretti da farci gonfiare le
mani e urlare dai dolori. Non ci picchiavano perché era buio. Ad un
certo momento della notte vennero a prelevarci, uno ad uno, per
portarci nella camera delle torture. Ero l’ultimo ad essere martoriato:
udivo i colpi che davano ai miei compagni di sventura e le urla di
strazio di questi ultimi. Venne il mio turno: mi spogliarono,
rinforzarono la legatura ai polsi e poi giù, botte da orbi. Cinque
manigoldi contro di me, inerme e legato, fra questi una femmina. Uno mi
dava pedate, un secondo mi picchiava col filo di ferro attorcigliato,
un terzo con un pezzo di legno, un quarto con pugni, la femmina mi
picchiava con una cinghia di cuoio. Prima dell’alba mi legarono con le
mani dietro la schiena ed in fila indiana, assieme a Carlo Radolovich
di Marzana, Natale Mazzucca da Pinesi (Marzana), Felice Cossi da
Sisano, Graziano Udovisi da Pola, Giuseppe Sabatti da Visinada, mi
condussero fino all’imboccatura della Foiba. Per strada ci picchiavano
col calcio e con la canna del moschetto. Arrivati al posto del
supplizio ci levarono quanto loro sembrava ancora utile. A me levarono
le calze (le scarpe me le avevano già prese un paio di giorni prima),
il fazzoletto da naso e la cinghia dei pantaloni. Mi appesero un grosso
sasso, del peso di circa dieci chilogrammi, per mezzo di filo di ferro
ai polsi già legati con altro filo di ferro e mi costrinsero ad andare
da solo dietro ad Udovisi, già sceso nella Foiba. Dopo qualche istante
mi spararono qualche colpo di moschetto. Dio volle che colpissero il
filo di ferro che fece cadere il sasso. Così caddi illeso nell’acqua
della Foiba. Nuotando, con le mai legate dietro la schiena, ho potuto
arenarmi. Intanto continuavano a cadere gli altri miei compagni e
dietro ad ognuno sparavano colpi di mitra. Dopo l’ultima vittima
gettarono una bomba a mano per finirci tutti. Costernato dal dolore non
reggevo più. Sono riuscito a rompere il filo di ferro che mi serrava i
polsi, straziando contemporaneamente le mie carni, poiché i polsi
cedettero prima del filo di ferro. Rimasi così nella Foiba per un paio
di ore. Poi, col favore della notte, uscii da quella che doveva essere
la mia tomba...".
Anche Graziano Udovisi si è miracolosamente salvato dopo essere stato
infoibato, ecco le sue parole:
"... Ad un certo punto ci hanno prelevati in sei e portati in un altra
stanza per torturarci tutta la notte. Dopo mezz’ora non sentivo più
nulla, avrebbero potuto anche tagliarmi a pezzettini, ma non me ne
sarei reso conto. Ormai il corpo non rispondeva più ai riflessi, era
inerme,e quando a un certo momento mi hanno ordinato di alzarmi in
piedi, ho cercato di guardarmi intorno: il mio volto era talmente
tumefatto, livido e gonfio che vedevo a malapena da due piccole e
lunghe fessure degli occhi, dovevo avere la testa rovinata. Ricordo di
avere visto un mio compagno di fronte a me, la cui schiena era
completamente rossa e mi chiesi per quale motivo lo avessero dipinto di
quel colore, invece era tutto il sangue che stava uscendo dalle
innumerevoli ferite. Se lui era ridotto in quel modo, se gli altri
erano così, allora anch’io ero in quelle condizioni, ma non me ne
rendevo conto. E quando ci hanno fatto alzare in piedi per portarci
fuori entrarono due ufficiali, un uomo e una donna, la quale disse che
il più alto doveva stare davanti alla fila. Nessuno si mosse, allora
questo ufficiale mi prese per i capelli, mi strattonò spingendomi
davanti a lei, la quale senza dire una parola, mi spaccò la mascella
sinistra con il calcio della pistola. Mi misero alla testa della fila
perché ero ufficiale, gli altri erano dietro, ma l’ultimo non ce la
faceva a stare in piedi. Forse perché lo avevano massacrato più degli
altri, forse perché più debole, non so. Sin dal primo momento di
prigionia ci avevano legato le mani dietro la schiena col fil di ferro,
per non slegarcele mai più, neanche durante le torture. Si può
facilmente immaginare come quei maledetti fili taglienti avessero
solcato la carne dei polsi e come continuavano a incidere sulle ferite
al minimo movimento. Poi ci misero in fila e ci portarono fuori
seminudi, senza scarpe: forse il fresco della notte ha fatto in modo
che capissi qualcosa di più, in quanto la testa era completamente
imbambolata, il cervello funzionava relativamente. A quel punto
soldati, ben vestiti, ci portarono fuori, nel bosco, non erano quelli
che ci avevano torturato. Dovevano essere dei militari, qualcuno della
banda d'accordo con loro e anche borghesi, partigiani comunisti, erano
tutti contro di noi. Ci hanno disposti in fila l’uno dietro all'altro,
sempre con le mani legate dietro la schiena e ulteriormente legati
insieme tramite un filo di ferro che scorreva sotto il braccio sinistro
di ognuno, per formare una fila dritta, fino ad arrivare all’ultimo
che, non avendo la forza di stare in piedi, essendo svenuto a terra,
era stato legato non al braccio, ma attorno al collo. Ricordo di aver
sentito suggerire da due che parlavano in italiano, nel nostro
dialetto, di legarlo attorno al collo. Sicuramente durante il tragitto
l’ultimo è morto soffocato dal filo che ci legava l’un l’altro. Abbiamo
camminato per un viottolo, non so per quanto tempo, ero distrutto e il
fil di ferro che mi univa ai compagni era una tortura. Appena riuscii a
farlo scorrere leggermene lungo il braccio, fino al polso, mi sembrò un
sollievo; in quel momento sono scivolato e caduto. Immediatamente mi è
arrivata una botta con il calcio di una mitragliatrice al rene destro.
A causa di ciò ho subito tre operazioni al rene, che da quel momento ha
sempre prodotto calcoli".
Quante altre conseguenze ha avuto?
"Tante. Non solo sono stato leso in modo tale da essere sordo
all’orecchio sinistro e al destro ci sento per metà. Ma dal tragitto di
trasferimento da Pola fino a Fianona me ne hanno fatte di tutti i
colori, mi hanno fatto mangiare della carta, dei sassi, mi hanno
sparato vicino alle orecchie, si divertivano a vederci sobbalzare. Mi
hanno accompagnato verso un posto e ci hanno detto: 'Fermatevi. La
liberazione è vicina'. Dentro di me ho mandato un pensiero al cielo. Ho
guardato dentro alla foiba, ma non vedevo niente, perché era mattina
presto. Giù in fondo si scorgeva solo un piccolo riflesso chiaro. Si
sono tirati indietro e quando ho sentito il loro urlaccio di guerra mi
sono buttato subito dentro, come se questa foiba rappresentasse per me
un’ancora di salvezza. Dopo un volo di 15-20 metri, non lo so, sono
piombato dentro l’acqua. Venivo trascinato sempre più giù e mi dimenavo
con tutta la poca forza rimasta in corpo. Ad un certo momento, non so
perché, sono riuscito a liberarmi una mano. Ho immediatamente nuotato
verso l’alto e ho toccato una zolla con dell’erba, era in realtà una
testa con dei capelli. L’ho afferrata e tirata in modo spasmodico verso
di me e sono riuscito a risalire, ringraziando Iddio. Ho salvato un
fratello".
Le testimonianze sono prese dal sito: www.foibe.monrif.net
Angelo
Battiato (inviato speciale a Brescia)
angelo.battiato@istruzione.it