Da tempo coltivavo
l’ipotesi di scrivere un trattatello pedagogico, magari sotto forma di
romanzo breve, o quantomeno un articolo, oppure un resoconto
sufficientemente chiaro e dettagliato, per provare a documentare e
descrivere minuziosamente, ma soprattutto per rielaborare criticamente
sul piano della riflessione teorico-pedagogica, un’esperienza pratica
indubbiamente originale (per cui ne rivendico l’esclusiva), concepita e
perfezionata nel corso della mia carriera professionale. Mi riferisco
ad un’invenzione metodologica personale che ha arricchito ed affinato
in termini di estro creativo ed efficacia, quella che è l’azione
didattica quotidiana, ottenendo riscontri educativi indiscutibilmente
validi ed apprezzabili, talvolta persino eccellenti. Infatti, ovunque
sia stato sperimentato, questo sistema pedagogico alternativo ha
registrato reazioni favorevoli, entusiasmando gli alunni delle varie
classi in cui è stato introdotto.
Avendo molti anni di carriera alle spalle, francamente non ricordo bene
la prima volta in cui adottai questa strategia. Rammento solo che si
trattava di un classe quarta in un circolo didattico in provincia di
Napoli, laddove la stragrande maggioranza dei bambini non aveva alcuna
voglia di studiare e, in molti casi, nemmeno di frequentare la scuola.
Prendendo atto del contesto, mi convinsi ad escogitare una soluzione
didattica nuova per ovviare al problema, cioè rispondere in modo
diverso ai bisogni formativi e culturali degli alunni e riuscire a
concretizzare interventi compensativi volti a rimediare agli svantaggi
che erano di origine evidentemente ambientale e socio-familiare. Mi
arrovellai a lungo il cervello per elaborare e somministrare una
tecnica di apprendimento che fosse il più possibile piacevole,
simpatica e gratificante, non arida o tediosa, come risulta normalmente
l’approccio scolastico alla matematica e ad altre discipline di studio.
E siccome sono un appassionato di giochi enigmistici e didattici (e di
giochi in generale), non so dire come e quando sopraggiunse
l’ispirazione, ma un bel giorno ebbi l’idea (che io stesso non esito a
definire “geniale”) di rivisitare alcune regole e modalità assunte dal
calcio per applicarle in un sistema di gioco molto semplice ed
incisivo, basato su domande e risposte rapide. Mi decisi subito a
sottoporre la mia proposta agli alunni, chiamandoli a “sfidarsi” (nella
fattispecie) sulle tabelline, per cui essi hanno iniziato ad imparare
divertendosi. In tal modo la mia invenzione si rivelò molto efficace.
Negli anni seguenti, in tutte le classi in cui ho avuto occasione di
insegnare matematica, ho applicato con successo questo metodo di
insegnamento nuovo ed originale, assumendolo all’interno di un bagaglio
tecnico-metodologico più ampio, attrezzato di strategie didattiche (per
così dire ) “di ricambio”, in grado cioè di fornire alternative, ed ho
puntualmente registrato risultati brillanti ed entusiasmanti, non solo
sul piano strettamente didattico e cognitivo, ma anche sul versante
educativo e socio-relazionale.
Anche quest’anno, gli alunni (per l’esattezza si tratta di una classe
quinta) mi chiedono continuamente e insistentemente di giocare. Poiché
i bambini in questione sono grandicelli ed già hanno conosciuto e
sperimentato questa tecnica di gioco, sono perfettamente in condizione
di “autogestirsi”, tant’è che mi concedo la libertà di assegnare le
funzioni arbitrali (svolte normalmente dall’insegnante) ad uno di loro
e parimenti gli altri ruoli organizzativi che, in pratica, si riducono
a due sole figure: una persona che pone le domande e cura anche la
conduzione arbitrale del gioco e un’altra incaricata di segnare sulla
lavagna gli spostamenti del “pallone”, indicato con una crocetta in
corrispondenza di uno dei tre numeri scritti in sequenza su ogni metà
campo.
L’enorme successo di questa tipologia didattica si spiega in virtù del
suo carattere ludico che la rende assai piacevole e divertente. E’ una
tecnica utile e funzionale soprattutto per la memorizzazione delle
tabelline, ma può essere impiegata in modo proficuo anche per
l’apprendimento di contenuti attinenti ad altre discipline del
curricolo formativo.
Pertanto, i principali destinatari di questa metodologia di
insegnamento ludico sono gli alunni della scuola primaria in età
compresa tra gli 8 e i 10/11 anni al massimo, cioè a partire dalla
classe terza della scuola (ex) elementare. Ma nulla vieta di ricorrere
a questa tecnica anche in una classe iniziale della secondaria di primo
grado (ex scuola media), laddove l’insegnante di matematica registri la
necessità di consolidare l’apprendimento delle tabelline
nell’eventualità (ovviamente deprecabile ma frequente) che qualche
alunno accusi gravi insufficienze, ritardi o lacune, oppure
(l’insegnante) ritenga opportuno insistere su altri argomenti e
cognizioni che risultino deboli o carenti.
Il meccanismo del gioco è molto elementare ed è facile da comprendere e
rispettare: il regolamento si riduce a poche, semplici regole mutuate
dal gioco del calcio, tradotte e declinate in un contesto diverso. Non
a caso, il metodo l’ho chiamato “gioco del calcio”.
Si procede anzitutto alla rappresentazione sulla lavagna (o, in
alternativa, su un foglio da disegno) del “rettangolo di gioco”,
corrispondente alla forma rettangolare di un campo di calcio: bisogna
tracciare una figura che comprenda pochi elementi grafici quali le metà
campo, il centro, le aree di rigore, le porte e i calci d’angolo,
inserendo in ogni metà campo una sequenza numerica da 1 a 3, come ho
già accennato precedentemente.
Come si può facilmente desumere, già nella fase di preparazione del
gioco si presenta la possibilità di somministrare, sotto forma di
gioco, alcuni esercizi pratici ed operativi che possono rivelarsi utili
per l’acquisizione e il consolidamento tecnico di alcune nozioni di
geometria piana, nella fattispecie inerenti alla costruzione degli
angoli e dei rettangoli.
Le gare si possono disputare individualmente, oppure dividendo gli
alunni in piccoli gruppi. La scelta della formula migliore (tra sfide
individuali o a squadre) è dettata ovviamente da ragioni di utilità e
convenienza, talvolta da necessità contingenti, che sarà l’insegnante a
valutare in modo opportuno e costruttivo nelle varie circostanze. La
mia esperienza personale mi ha indotto a preferire lo schema delle
dispute individuali piuttosto che a squadre, rinunciando saggiamente ad
allestire tornei a gironi eliminatori, onde evitare di innescare
eccessive spinte agonistiche rischiando di esasperare gli animi.
L’insegnante svolge mansioni arbitrali e rivolge ai bambini le domande
relative alle tabelline della moltiplicazione. Ogni tre risposte esatte
consecutive date da uno dei due alunni concorrenti, si realizza un
goal. La gara si conclude nel momento in cui uno dei due avversari
segna il maggior numero di goal. Sarà l’insegnante a fissare, a propria
discrezione, il termine del confronto. Per esperienza suggerisco un
limite massimo di 3 goal, così da accelerare i tempi delle sfide e
consentire a tutti i bambini di parteciparvi.
Mi permetto di esortare i colleghi (che dovessero decidere di adottare
nel bagaglio della propria esperienza questa soluzione
didattica-metodologica che, ripeto, ha dato luogo a risultati molto
validi ovunque sia stata applicata) ad usare molta attenzione per
evitare eventuali contraccolpi o scompensi sul piano psicologico ed
emotivo, da parte degli alunni, eccitati magari dall’ansia o dalla
tensione agonistica esasperata, derivante dalla competizione.
L’atteggiamento che anima le “sfide” tra gli alunni, deve essere
gestito e circoscritto il più possibile nell’alveo di un clima
equilibrato e sereno, improntato ad una sana e genuina sportività.
Altrimenti il gioco rischia di degenerare in dispute rissose.
E’ inutile sprecare altre parole per raccontare i sentimenti di gioia e
di euforia che i bambini sprigionano e trasmettono quando sono
impegnati nello svolgimento delle gare, anzitutto perché lo spirito
ludico e la carica agonistica esercitano una spinta notevole che li
sprona ad apprendere. I risultati sono positivi anche nel caso dei
bambini che scelgono di non cimentarsi, magari per timidezza, per cui
preferiscono restare ai margini ma, in ogni caso, seguono con interesse
le sfide, perciò finiscono anch’essi per imparare senza compiere alcuno
sforzo mentale, semplicemente osservando gli altri che giocano.
In chiusura aggiungo alcune considerazioni per sottolineare un aspetto
molto rilevante.
Un metodo di insegnamento ispirato a scelte di carattere
ludico-creativo non può mirare esclusivamente al perseguimento di
specifici traguardi cognitivi fissati dall’insegnante, che sono
innegabilmente preziosi, ma deve cercare di impostare e promuovere una
finalità indubbiamente superiore che rientra in una sfera pedagogica
più generale, vale a dire in una dimensione meta-cognitiva. Mi
riferisco all’assimilazione di requisiti assolutamente indispensabili
alla maturazione di una sana e corretta socializzazione e
all’interiorizzazione di norme condivise, in quanto presupposti
ineludibili per un processo di educazione alla cittadinanza e alla
convivenza democratica, che costituisce il fine supremo di una scuola
che “naviga” nella complessità del mondo contemporaneo.
Concludendo, mi preme ribadire ancora una volta che i risultati
conseguiti (ovunque) grazie a questa visione pedagogica di ordine
ludico ed alternativo, sono innegabilmente superiori a quelli che avrei
ottenuto ricorrendo a qualsiasi altra soluzione didattica. Almeno, è
quanto ho avuto occasione di riscontrare nella mia esperienza
professionale.
Lucio Garofalo
l.garofalo64@gmail.com