L’abolizione del valore
legale del titolo di studio è diventato un tormentone, un argomento di
cui si torna a parlare con periodica puntualità. Proprio di questo, a quanto pare, si
parlerà nel consiglio dei ministri di venerdì prossimo.
Nell’attesa di saperne di più, più in generale, di conoscere quali
siano le intenzioni del governo riguardo il rinnovamento del sistema
scolastico e universitario, ci sembra importante ricordare alcuni punti
fermi da cui qualunque riflessione, nonché riforma, dovrebbe partire.
È trascorso circa mezzo secolo da quando un gruppo di studiosi, attenti
alle trasformazioni che si stavano verificando in campo educativo,
promosse la prima grande rilevazione comparativa sui risultati che gli
allievi conseguivano nei vari sistemi scolastici. Dal punto di vista
dei promotori, quelle rilevazioni dovevano offrire elementi per una
migliore comprensione del modo in cui i sistemi scolastici si
mostravano in grado di far fronte alle esigenze che stavano emergendo
per effetto delle trasformazioni sociali, culturali ed
economiche.
Dalle analisi comparative sarebbero quindi dovute derivare indicazioni
utili per approfondire nei singoli paesi i problemi dello sviluppo
educativo, prendendo atto dei punti di forza e, con attenzione anche
maggiore, di quelli di debolezza. Alla base delle rilevazioni
comparative c’era l’intento di acquisire elementi di conoscenza utili
per migliorare la qualità delle decisioni da assumere per lo sviluppo
dei sistemi educativi. Il confronto sui problemi dell’istruzione
avrebbe potuto superare i condizionamenti contingenti legati al
prevalere di schemi precostituiti alla base del senso comune,
perseguendo caratteri di razionalità. Ma ciò avrebbe comportato un
impegno per lo sviluppo della ricerca educativa che in Italia non c’è
stato. C’è stato invece, in un primo tempo, un atteggiamento scettico e
sufficiente, al quale hanno concorso ideologie antiscientifiche
variamente orientate, e al quale è seguita, in anni più recenti,
un’accettazione subalterna. In
mancanza di linee interpretative che fossero espressione di una cultura
educativa attenta al presentarsi delle esigenze e al mutare dei
fenomeni, hanno finito con l’imporsi modi di argomentare presi a
prestito da altri settori dell’attività sociale (per esempio,
dall’organizzazione aziendale). Il fatto è che, mentre
l’educazione è un’attività che si attua nel lungo periodo, le attività
che hanno fornito i prestiti seguono generalmente una logica di breve
periodo. Nell’educazione, ciò che avviene nell’infanzia e
nell’adolescenza è solo una premessa rispetto a ciò che avverrà nel
seguito della vita. Inoltre, l’educazione non è solo l’effetto
d’interventi espliciti (come quelli che si effettuano nelle scuole), ma
ad essa concorrono in misura anche maggiore variabili che traggono la
loro origine nei contesti di esperienza di bambini e ragazzi. Il fatto
che autorevoli istituzioni internazionali (come l’Ocse) abbiano
centrato la loro attenzione sui livelli di apprendimento ha favorito,
in assenza di una cultura valutativa consapevole, interpretazioni
schiacciate su un asse comparativo di tipo sincronico. In altre parole,
si confronta quanto appare in un momento determinato, trascurando in
che modo i fenomeni si siano determinati e quale potrà essere il loro
seguito. Questa mancanza di spessore
valutativo ha dominato le politiche scolastiche della Destra,
affermando criteri che non hanno dato prova di particolare validità
neanche nei settori in cui sono stati originariamente formulati.
Parlare di merito, d’impegno individuale, di efficienza e via
discorrendo (e, soprattutto, parlarne in termini comparativi) non serve
a qualificare i risultati dell’educazione, mentre servirebbe domandarsi
in che modo orientare diversamente le scelte educative, quale profilo
culturale non effimero si vorrebbe che conseguisse la generalità degli
allievi, che cosa resta e che cosa decade di quanto si acquisisce negli
anni dell’educazione sequenziale, quali sono le condizioni per
continuare ad apprendere in una fase storica che si distingue per la
rapidità con la quale nuovi apporti modificano il quadro della
conoscenza, come usare al meglio, conservando autonomia di pensiero e
di azione, le opportunità offerte dallo sviluppo della tecnologia.
Uscire dalle angustie in cui versa il sistema educativo, a tutti i
livelli, vuol dire, per cominciare, respingere il ciarpame di senso
comune che consiste nell’affermare, come se disponessero di assoluta
evidenza, concetti e modi di operare che invece sono per lo più frutto
di ideologia o derivazione di interessi in sé estranei all’educazione.
Non basta un po’ di paccottiglia strumentale per migliorare la qualità
dell’offerta d’istruzione, come non basta adattare concetti da libero
mercato alla valutazione della qualità dei risultati che si ottengono
nel sistema educativo. Meglio sarebbe
preoccuparsi di assicurare alle scuole e agli insegnanti le condizioni
per svolgere correttamente il loro lavoro, e insieme preoccuparsi di
promuovere la crescita di conoscenza necessaria a compiere un reale
salto di qualità nell’interpretazione della realtà educativa.
(di Benedetto Vertecchi da l'Unità)
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