La crisi spinge sul
mare molti artisti. Come il batterista della Concordia, che ha ceduto
il posto a un bambino rinunciando a salvarsi. I bandi, le audizioni, le
giornate a bordo. Può diventare il lavoro di tutta la vita
Alla fine, la storia è sparita dalle pagine dei giornali ma nei giorni
immediatamente successivi all’affondamento della nave da crociera
squarciatasi sugli scogli del Giglio, a quanto pare per una sbruffonata
del comandante, ha trovato un suo piccolo posto nelle cronache la
notizia del giovane batterista del complesso ingaggiato per
intrattenere i passeggeri nelle lunghe serate di bordo che, arrivato
alla scialuppa che l’avrebbe messo in salvo, ne è ridisceso per
lasciare il posto a un bambino impaurito, inabissandosi così nella
lista delle persone disperse nel naufragio sul cui destino non resta
ormai sospesa neppure la più flebile speranza.
Giuseppe Girolamo era diplomato in
conservatorio e, seguendo lo stesso percorso di tanti come lui, aveva
trovato uno dei suoi primi lavori da professionista della musica
imbarcandosi con l’equipaggio della Concordia di Costa crociere,
diventandone lui stesso – come vogliono la prassi e il diritto
marittimo - un componente a tutti gli effetti, sottoposto alla stessa
disciplina e ai medesimi obblighi. La sua decisione di mettere a
disposizione il suo posto nella lancia della salvezza a una persona più
indifesa è stato perciò un atto professionalmente ineccepibile,
pattuito nel contratto sottoscritto prima di mettere piede sulla nave;
non è stato un gesto di eroismo anche se, in questa vicenda, negli
episodi che frammento dopo frammento stanno chiarendosi man mano che si
incollano le testimonianze degli scampati la vera linea di
demarcazione, la linea d’ombra del nostro mare domestico, sembra
passare non tra eroi e vili ma tra coloro che si sono dimostrati
semplicemente all’altezza del loro compito e chi, invece, ha fatto un
passo indietro, contando sull’annebbiamento delle responsabilità
fomentato dalla confusione, o anche involontariamente subendolo,
facendo mancare la vigilanza della sua presenza per lo smarrimento di
un attimo che peserà tutta la vita.
Ne parlo con Ferruccio, un trentenne uscito qualche anno fa con un
diploma di canto dal conservatorio di Frosinone. La passione gli viene
dalla famiglia, che ho conosciuto e frequentato; il nonno era un
falegname rifinito, come si diceva alla sua epoca per distinguere
questa tipologia da quella dei più approssimativi che cercavano di
mascherare l’imperizia con la mancanza di tempo, una scusa impensabile
per un artigiano che sapeva di dover rispondere solo alle misure
dettate dalla compiutezza del proprio lavoro. Suonava nella banda del
paese, insieme al fratello con cui spartiva la bottega. Di lui si
ricordava, ancora anni dopo, il primo incontro con il futuro genero
che, aspettandosi una sfuriata per il sospetto di aver voluto troppo
presto assaporare le ascose gioie coniugali con la giovanissima
promessa, rimase stupito nel sentirsi apostrofare con una frase che
sarebbe rimasta incisa nel blasone della gens; “noi siamo – esclamò il
nonno di Ferruccio – una famiglia di musici e poeti”: spandeva ancora i
suoi profumi elisii quel cannellino frascatano il cui vitigno, di lì a
poco, un’impietosa epidemia avrebbe sottratto, per sempre, all’onore
del mondo.
Ferruccio conosce la regola d’ingaggio delle crociere perché, prima di
decidere che non si può così in fretta abbassare l’asticella delle
proprie ambizioni, ha cantato nei teatri e nei saloni delle navi, e da
lì ha offerto il fascino e le perle melodiche della stimatissima
tradizione tenorile italiana a un pubblico che, come raccontò David
Foster Wallace in un suo memorabile reportage a bordo della Nadir, il
transatlantico del divertimento diventato da quel momento eponimo, è
attratto dalla tentazione di farsi “sibariticamente e patogenicamente”
viziare, almeno a voler prestar fede alle supposizioni impresse negli
eleganti caratteri delle brochure delle compagnie organizzatrici dei
viaggi, che avevano incuriosito il grande scrittore americano.
C’è un percorso standard da fare,
spiega Ferruccio che adesso sta approfondendo con un maestro privato il
suo repertorio ed è pronto a entrare nel circuito dei teatri
importanti.
Ecco un suo breviario di istruzioni pronto per l’uso di chi
voglia cominciare l’apprendistato dal suo stesso punto di avvio. “Primo: è necessario stare attenti ai bandi
con i quali le agenzie annunciano che si è aperta una selezione;
secondo: nell’audizione si deve dimostrare di avere perfetta padronanza
del proprio strumento o della voce; terzo: non dimenticare che viene
tenuta molto in considerazione la capacità di adattarsi alle diverse
situazioni; quarto: nell’esecuzione dei due o tre brani della prova è
essenziale non scivolare, non tentennare; quinto: non illudersi,
l’esperienza conta più del diploma preso in conservatorio, anche se
questo titolo non è certo sgradito; sesto: curare molto
l’atteggiamento, la maniera di proporsi, non si deve dare l’impressione
di essere un tipo remissivo, uno che ha l’occhio triste viene scartato
perché si prevede che non sarà capace di creare socialità; settimo: è
essenziale la conoscenza dell’inglese, si deve capire al volo e parlare
con spigliatezza, anche perché agli artisti e animatori che entrano a
far parte dell’equipaggio viene richiesto di saper far fronte a compiti
diversi, non solo a quelli per cui sono pagati”.
La preoccupazione principale è insegnare a tutti i comportamenti più
adeguati nel caso di emergenze. Prima di imbarcarsi, perciò, è
obbligatorio frequentare un corso per la sicurezza, a conclusione del
quale si prende un certificato che attesta di aver partecipato con buon
profitto; da noi capita che non sia necessario andarci davvero di
persona a questi corsi, che si tengono a Genova a cura di una struttura
di formazione della marina mercantile; è sufficiente iscriversi e
pagare, l’attestato si ottiene lo stesso mentre il training formativo
si rinvia al momento di imbarcarsi, quando sono le stesse compagnie a
organizzarlo. Il sistema della sicurezza che scatta in caso di
necessità tutto sommato è abbastanza semplice, ogni viaggiatore trova
indicata nella sua carta d’imbarco la master station, la zona del ponte
nella quale deve dirigersi e radunarsi con gli altri cui è stata
assegnata la stessa collocazione, i membri dell’equipaggio si
preoccupano o di smistarlo verso il suo posto o di assisterlo e dargli
le istruzioni opportune quando c’è arrivato. “Non mi sono mai trovato –
racconta Ferruccio – in una situazione di pericolo, l’ho però sfiorata,
per fortuna tutto si è risolto solo con un grande spavento”.
Le crociere di una nave continuano l’intero anno; questa sorta di
sofisticatissimi e lussuosi grandi alberghi del mare si spostano da un
equatore all’altro alla ricerca del sole e del caldo, fanno giri che
durano tutti in media una settimana, tranne la crociera di
trasferimento tra le due parti opposte del mondo che è lunga più o meno
il doppio; il movimento, escluse le due settimane che la nave, come si
dice, resta asciutta per effettuare la manutenzione, è continuo,
l’ultimo giorno di un turno coincide con il primo del turno seguente; i
passeggeri si mescolano: quelli che scendono hanno l’aria soddisfatta
di chi non vede l’ora di tornare a casa per raccontare quanto si sia
divertito e quali giovamenti incommensurabili gli abbia provocato il
relax (la parola più pronunciata, secondo la statistica stilata da D.F.
Wallace origliando i discorsi intrecciati tra i tavolini dei ristoranti
di bordo) di quei giorni sbalorditi, con la serenità delle ore in cui
anche l’idea della morte è parsa provvisoriamente placarsi
nell’animazione collettiva; gli altri che salgono hanno lo sguardo un
po’ circospetto di chi, temendo di leggerci la delusione, vorrebbe
capire dalle facce di coloro che sbarcano cosa attendersi e se qualche
briciola di divertimento sia stata lasciata per loro.
Racconta Ferruccio. “Gli sbarchi nel nostro lavoro sono importanti,
perché da essi dipendono le pause di un impegno continuo, assillante.
Non tutti, però, sono uguali. Quelli, come me, che si esibiscono in
momenti teatrali hanno più respiro, in una settimana si fanno tre
spettacoli concentrati in due giorni, perché qualche volta è necessario
replicare nella stessa giornata quando il teatro della nave, che pure
arriva ad avere ottocento posti e oltre, non riesce a contenere in una
volta sola tutte le richieste”. “Non è facile, ma si riesce a
rifiatare, si ha tempo di riflettere e di guardarsi dentro e intorno,
si può lavorare per migliorare l’esibizione. I musicisti
dell’intrattenimento leggero, che suonano nei saloni sono invece
praticamente in servizio permanente e continuo, non hanno né ore né
spazi per altro; cominciano alle sei del pomeriggio e vanno avanti fino
a notte, senza una sospensione, senza un attimo di tregua. Non si
fermano nemmeno quando la nave approda e finisce la crociera, perché in
quei frangenti a loro tocca di intrattenere i nuovi passeggeri che
salgono, fino all’ora della partenza, quando si ricomincia da capo”.
La sospensione del tempo, che è l’effetto indotto dalla crociera, è
quello che cercano i clienti per una settimana, ma è anche un peso a
volte insostenibile per chi sulla nave lavora e sa che dopo quella
settimana ne comincia un’altra e poi un’altra ancora fino al termine
dell’ingaggio che può allungarsi anche per cinque o sei mesi. Prosegue
Ferruccio. “Quando si mette piede a bordo si entra a vivere dentro un
mondo separato, consegni al tuo tempo nuove coordinate, ti abitui a
riferirti agli orari che segnano la giornata, ai momenti in cui è
permesso l’accesso ad alcune parti della nave che nel resto delle ore
sono vietate; al bar, per esempio, si può andare dalle tre alle sei del
pomeriggio, la mensa è aperta dalle undici del mattino alle tredici e
trenta; sembrano banalità, divieti da niente, ma non è così. Si sente
molto la solitudine, anche se intorno c’è sempre parecchia gente”.
“Gli artisti, specialmente quelli che lavorano nei teatri e non sono
vittime del ritmo assillante degli altri musicisti o in genere degli
artisti dell’intrattenimento che stanno nei saloni, hanno dei
privilegi, possono circolare nelle zone dove c’è il pubblico, riescono
a varcare qualche limite; ma pagano molto caro questo supposto
privilegio: si attirano, infatti, tutta l’ostilità degli ufficiali che
non sopportano la loro libertà di muoversi e a malapena nascondono
d’essere gelosi del loro successo con il pubblico, dei complimenti e
delle attenzioni che ricevono. Anche questo, però, è formativo, certo
non dal punto di vista professionale ma da quello umano sì, perché
impari a difendere le cose che hai, con una decisione, persino una
cattiveria, che nella vita normale non avresti mai pensato di avere
sepolte dentro di te”.
Gli spettacoli sono appaltati a società di produzione che realizzano il
programma, si può dire, chiavi in mano. I contratti sono severi, le
penalità comprendono anche la drastica sospensione del rapporto se le
prestazioni non vanno nel senso desiderato; il giudizio è nelle mani
dei passeggeri che, a fine crociera, segnano il loro voto sulla scheda
consegnata per dichiarare il livello della propria soddisfazione e
sulla quale ogni viaggiatore confessa, sotto la garanzia
dell’anonimato, se i servizi offerti gli siano piaciuti oppure no: i
pasti, la cortesia dei camerieri, la pulizia delle cabine, la simpatia
degli animatori che sorvegliano con il piglio di gioiosi e innocui
grandi fratelli che la leggera euforia del viaggio non si spenga troppo
presto per la noia che a un certo punto arriva. Si domanda anche di
esprimersi sul gradimento di musiche e cantanti e può perciò succedere
che in fretta e furia, tra una partenza e l’altra, si sostituisca un
tenore che ha deluso l’attesa di bel canto e si convochi quello i cui
virtuosistici ceselli sono stati tramandati dal passa parola; ma può
capitare anche che tutto il programma salti e che la produzione venga
messa in mora per aver tradito i patti per l’inappellabile decreto del
professionista incaricato dalla compagnia di supervisionare gli
spettacoli: una sorta di “arbiter elegantiarum” alla cui sensibilità
artistica, o più probabilmente alla sua porcaccia conoscenza di istinti
e desideri del pubblico pagante, viene demandato il parere definitivo
sull’efficacia dell’offerta.
La produzione deve pensare a tutto, artisti, ballerine, scenografie,
tecnici di sala e del suono, registi; i contratti individuali con i
professionisti, però, vengono rigorosamente intestati alle compagnie,
la maggior parte delle quali battenti la bandiera di stati sciolti da
obblighi fiscali e contributivi: e così questi mesi di lavoro non
risultano certificati da nessuna parte; chi vuole coprirli, metterli
sotto una rete di protezione che li tenga validi per quando, a fine
carriera, si scoprirà come possano essere preziosi, deve ricorrere alle
proposte delle assicurazioni private.
Ancora Ferruccio. “E’ quello che mi ha consigliato il mio
commercialista, ma non è il caso, a quanto so, di Costa Crociere, la
compagnia dell’incidente del Giglio, che è italiana e perciò deve stare
per forza in regola, per lo meno sotto questo aspetto. Oggi, con le
crociere, si guadagna la metà di quanto si riusciva a ottenere dieci
anni fa; la crisi sta spingendo sul mare artisti che prima trovavano le
loro occasioni a terra, diminuiscono perciò i giovani e si abbassano
gli stipendi. Un musicista dell’intrattenimento prende circa
milleduecento euro al mese, il capo della band arriva a
millecinquecento, un cantante teatrale, come me, lavora la metà e
guadagna il doppio, più o meno duemilacinquecento euro. Per alcuni può
essere addirittura il lavoro di tutta la vita, ma in realtà si cambia
spesso perché non è facile reggere”.
Alla fine resta qualche risparmio, rimangono due o tre o dieci pagine
in più per arricchire il proprio curriculum, ma si sa che di questa
aggiunta nessuno terrà conto più di tanto; ciò che serve davvero, di
quanto si è accumulato nei giorni delle crociere, è la capacità di
sorvegliarsi, controllare le emozioni, dominarsi psicologicamente per
non cadere nel tranello della sfiducia, nella sfida delle provocazioni:
“impari – dice Ferruccio - a gestire per periodi lunghi le tue
performance artistiche, devi mantenerti sempre pronto per mesi, senza
abbassare la qualità; con le scritture normali è più semplice tenersi
in forma, i periodi di concentrazione sono più brevi, sulla nave devi
invece imparare a rilassarti per arrivare fino in fondo. E questo,
tutto sommato, ti sarà utile sempre”.
Dalle navi si scende e il mondo torna con i piedi per terra, rimette le
sue coordinate del tempo lungo gli assi attorno ai quali compie i suoi
movimenti la vita di tutti. Ferruccio, che ha rifiutato l’ultimo
ingaggio tre mesi fa per non essere ingoiato di nuovo dall’angoscioso
sentimento di essere il protagonista di una storia che non rilascia
passaporti per il futuro, prepara progetti, studia, corre da
un’audizione all’altra, cerca contratti.
Prima o poi avrebbe fatto così, o forse già aveva cominciato a farlo,
anche Giuseppe, il batterista di Alberobello, quel giovanotto che era
soprannominato Samotì, per via – ho letto – dell’arricciatura della sua
lunga chioma uguale a quella di un cartone animato giapponese, di cui
solo in questi giorni ho appreso l’esistenza. Sarebbe andata così, se
non avesse deciso, ultimo tra quelli cui sarebbe spettato eppure primo
a farsi avanti, di osservare la regola del suo contratto e, per
onorarlo, non avesse ceduto il suo posto ricordando, come insegnano
anche i fumetti, “prima le donne e i bambini”.
(di Tarcisio Tarquini da http://www.rassegna.it)