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News: Obbligo scolastico a 17 anni, ma qual è la strategia?

Rassegna stampa
Negli ultimi giorni il ministro Profumo ha rilanciato la discussione sulla necessità di fissare l'obbligo scolastico a 17 anni, ponendo questo obiettivo in relazione al ruolo che dovrebbero svolgere l'istruzione tecnica e gli istituti professionali, oramai di competenza regionale, nel processo di rilancio del sistema educativo a favore dello sviluppo di un maggiore dialogo tra scuola e imprese, finalizzato all'innalzamento del grado di occupabilità dei giovani e alla possibile creazione di nuova occupazione.
L'opera è certamente meritoria e la portata della questione è particolarmente ambiziosa, poiché fornisce nuove prospettive alle potenzialità dell'autonomia scolastica, ma anche perché questo traguardo è già una realtà di fatto nei principali paesi Ocse (in Europa e Usa) e negli stessi paesi di nuova industrializzazione (India, Cina e Brasile).              
    Del resto, già altri ministri dell'istruzione in passato (Berlinguer e Moratti) avevano tentato di recuperare, senza successo, quell'anno in più che gli studenti italiani sono costretti a fare nel nostro ordinamento scolastico, portando a 12 anni il periodo di studi da effettuare prima dell'iscrizione all'università o all'accesso al lavoro.
Un accesso sempre più difficile, rappresentato dall'alto numero di giovani inattivi, da un alto tasso di disoccupazione giovanile (30, 1%), dal pericoloso fenomeno della dispersione scolastica (19.7%) e dalla presenza di oltre 2,2 milioni giovani che non studiano, non lavorano e non svolgono attività formativa.
Si tratta, dunque, di una questione strategica che non dovrebbe essere mossa da intenti tecnici di «alleggerimento di costi», ma riguardare il ripensamento e la ridefinizione dell'intero sistema scolastico, da realizzare attraverso un dibattito chiaro e trasparente che coinvolga il Parlamento e gli attori sociali e istituzionali rappresentativi del mondo della scuola. Occorre esplicitare e argomentare adeguatamente dove è necessario eliminare un anno, se nel primo ciclo o nel secondo, magari eliminando l'attuale tripartizione dell'ordinamento scolastico, pur sapendo che negli altri paesi citati il secondo ciclo dura 4 anni. Allo stesso modo e con la stessa chiarezza e trasparenza, bisognerebbe decidere di destinare le risorse acquisiste alla realizzazione di progetti speciali: contrasto alla dispersione scolastica, molto diffusa proprio negli istituti tecnici e professionali; innovazione didattica e sperimentazione di una diversa articolazione e composizione del gruppo classe; diffusione delle nuove tecnologie educative. In questa ridefinizione strategica dell'intero sistema educativo bisognerebbe interrogarsi anche sul ruolo che dovrebbe svolgere lo stesso primo ciclo triennale universitario, in una prospettiva di maggiore professionalizzazione e di adeguamento del nostro numero di laureati (32%) alla media Ocse (38%), rispetto all'assetto all'indirizzo dell'attuale secondo biennio dei corsi di laurea magistrali.
Il problema si pone seriamente e ha un considerevole grado di complessità, in quanto nella realtà italiana, se s'intende avviare davvero un percorso utile verso questa prospettiva, occorre affrontare e cominciare a dare soluzione a due questioni cruciali di natura strutturali: la tradizionale autoreferenzialità che caratterizza l'attività didattica e formativa nella scuola e spesso anche nell'università, orientata ad una netta separazione tra conoscenza e competenza, insegnamento e lavoro, scuola e impresa; la scarsa propensione culturale delle imprese, in particolare di quelle di piccola e media dimensione, che sono anche quelle più diffuse, ad assumere giovani diplomati o laureati, portatori di nuove competenze capaci di rivestire ruoli utili all'innovazione organizzative e tecnologiche sia di prodotto che di processo.
In definitiva, è bene ribadire che considerato l'ambizioso obiettivo che si intende perseguire, sarebbe necessario inserire tempestivamente e in modo adeguato tale discussione nell'agenda politica e sindacale, poiché una positiva integrazione e alternanza tra scuola e lavoro, assicura ai giovani una base di esperienza e di motivazione che può sostenerli nel corso di tutta una vita di cambiamenti, avvicina la scuola al mondo produttivo, ma spinge anche l'impresa a conferire un maggior valore della formazione. In assenza di tale virtuosa integrazione culturale, risulta essere difficile un dialogo costruttivo tra questi due mondi così vicini eppure ancora troppo distanti.               (da ItaliaOggi di Antonio Cocozza - Università Roma Tre)

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Postato il Martedì, 17 gennaio 2012 ore 11:15:00 CET di Redazione
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