Il 45° rapporto
Censis non offre una interpretazione dei processi in atto nella società
italiana, ma fotografa i danni di una triplice “insipienza” : 1) un
debito accumulato che impedisce autonomia al sistema, 2)
l’impreparazione di fronte a un attacco speculativo, che colpisce il
sistema europeo nel suo anello debole, 3) la confusione e impotenza nel
governare azioni di difesa e di rilancio dell’economia. Vergogna
quindi, espressa con le parole di Cicerone, partim dolore, partim
verecondia, per la rappresentazione, l’immagine del nostro paese di
fronte agli altri, ma soprattutto di fronte a noi stessi, e il monito
di san Tommaso, non ratio est mensura rerum sed potius e converso, come
invito a riscoprire le virtù originarie, tornando alla realtà, perché
questa, più che la razionalità, sembrerebbe capace di dare ordine a una
crisi altrimenti ingovernabile. Un’analisi condotta col fiato sospeso,
da qualcuno che si ferma a due passi da un baratro e cerca appigli,
voltandosi indietro. Appare quindi difficile leggere isolatamente il
capitolo relativo alla istruzione e formazione senza tener conto del
quadro che il rapporto presenta anche su altri aspetti importanti: la
volontà degli italiani di “assumersi una responsabilità collettiva” (il
57% degli italiani appare disponibile a rinunciare al proprio
tornaconto per l’interesse generale, ma il 45% di questi sottolinea che
la disponibilità è limitata “solo a vere emergenze”) e l’identità
italiana come dimensione del senso della collettività (il 46% dei
cittadini fortemente identificati dal fatto di essere italiani, il 31%
legato al livello territoriale, comune o regione, il 15% aperto alla
cittadinanza europea e/o del mondo e solo uno scarso 8% di solipsisti,
come vengono qui definiti); il deficit di classi dirigenti, dal 2007 al
2010 i vertici decisionali si riducono dal 2,4% al 2% degli occupati,
tra questi è scarsa la presenza delle donne (un quinto del totale) e
degli under 45 anni, quota che tende a decrescere; il progressivo
declino della produttività nel corso di un
decennio.
Il sistema formativo appare fuori centro perché è la
natura stessa del processo formativo che non può non ancorarlo a una
ipotesi complessiva di sviluppo di una comunità, capace di riconoscersi
nell’oggi e nella prospettiva futura delle nuove generazioni, ma è
proprio questa che manca, mentre poco leggibili, nell’arco temporale di
un anno, appaiono gli esiti dei recenti provvedimenti assunti dal
precedente governo. Si generalizza l’iscrizione alla secondaria
superiore, ma solo il 75% dei diciannovenni consegue il diploma (nel
2010 i 18-24enni con la sola licenza media passano dal 19,2% al 18,8%,
ma l’Italia è ancora lontana dall’obiettivo europeo di portarli al 10%
e le differenze territoriali sono molto evidenti). La dispersione
scolastica, soprattutto nel biennio della secondaria superiore e in
alcune zone del paese, presenta caratteri di emergenza , specie se si
osserva il fenomeno degli early school leavers negli istituti
professionali e nel sud. L’abbandono nel biennio della secondaria
superiore (il segmento terminale dei dieci anni di istruzione
obbligatoria) passa dal 15,6% al 16,7% dall’anno scolastico 2006-2007
al 2009-2010; solo gli istituti tecnici vedono una riduzione
dell’abbandono, che cala di un punto percentuale (dal 17,6 al 16,6%)
mentre nei licei si passa dal 10,3 all’11,4% e nei professionali dal
22,9 al 23,7% (nel sud-isole dal 29,7 al 30%). La disomogeneità di
questo dato è confermata da un’analisi più approfondita che registra
eventuali sinergie e coordinamenti di diversi soggetti, istituzionali e
non, attivi nella prevenzione delle varie forme in cui il disagio
giovanile si manifesta: gli enti locali, le famiglie, il terzo settore
e le parrocchie offrono supporto all’attività delle scuole, anche se in
modo discontinuo e non omogeneo sul territorio, mentre del tutto
minoritario è l’apporto degli organismi di formazione professionale e
delle imprese. Laddove gli interventi sembrano produrre risultati, il
recupero sembra essersi realizzato su soggetti a rischio, che sono già
riusciti a superare l’ostacolo della prima classe del biennio , che
rimane lo snodo in cui cadono i ragazzi con maggiori difficoltà e che
vivono nelle zone dello svantaggio sociale e culturale del paese.
La filiera dedicata alla professionalizzazione resta la struttura più
debole del sistema; se è vero infatti che nel 2010-2011 gli istituti
tecnici statali hanno visto un incremento di iscrizioni dello 0,4%, i
professionali perdono progressivamente iscritti e vedono crescere
l’abbandono, mentre i percorsi triennali di istruzione/formazione
professionale non attirano i giovani (solo il 6,7% degli iscritti al
percorso di studi del secondo ciclo di istruzione sceglie questa
opzione formativa). Il 65% dei diplomati si iscrive all’università, ma
nel secondo anno di corso il 20% abbandona; del resto il tasso di
occupazione dei laureati in Italia è del 76,6%, contro la media
dell’Europa a 27 che è dell’82,3%. Gli esiti della crisi sono evidenti:
la richiesta di giovani laureati tende a diminuire, i giovani sono
difficilmente chiamati a coprire ruoli di responsabilità e, al primo
impiego, il 49,2% dei laureati e il 46,5% dei diplomati risultano sotto
inquadrati.
L’importanza di interventi educativi e formativi per tutta la vita e in
particolare in età adulta è un capitolo importante delle strategie
europee volte alla riqualificazione del capitale umano e alla capacità
di reagire di fronte alla crisi. Per l’Italia si tratta di recuperare i
bassi livelli di scolarità della popolazione adulta e di riallineare
gli interventi a quanto accade negli altri paesi. Il trend positivo
nella partecipazione che si era manifestato fino al 2009 si è
arrestato, siamo fermi al 9,1% di popolazione 25-64 anni partecipante
all’Eda contro il 15%, che l’Europa 2020 indica come obiettivo per
tutti i paesi. Questo fatto dipende dalla incertezza del quadro
normativo di riferimento; dal 2009 l’iter relativo alla approvazione
delle “Norme generali per la ridefinizione dell’assetto organizzativo
didattico dei centri di Istruzione Degli Adulti (IDA ex EDA), compresi
i corsi serali” è fermo, il provvedimento tende a limitare il ruolo
delle istituzioni scolastiche alla erogazione di titoli di studio, alle
Regioni conferma la competenza esclusiva della formazione professionale
mentre alla possibilità di attivare convenzioni con Enti locali e altri
soggetti è affidato lo sviluppo di attività di liberal education, che,
negli anni, ha rappresentato un segmento vivace e utile di
sperimentazioni promosse e gestite dalle istituzioni scolastiche, che
spesso sono state capaci di intercettare e ri-orientare i bisogni
formativi degli adulti; l’incertezza quindi scoraggia una utenza
italiana e straniera che avrebbe bisogno, proprio oggi, di trovare
offerte trasparenti e flessibilità di percorsi. L’università fa
registrare un dato positivo in relazione all’aumento dei finanziamenti
esteri, che gli atenei hanno raccolto nel triennio 2008-2010, mentre
l’esperienza di mobilità per stage coinvolge pochi studenti italiani
della istruzione/formazione superiore (3 punti percentuali sotto la
media europea); la quota invece di giovani, che hanno effettuato uno
stage entro la VET (Vocational Education and Training), è superiore
alla media europea. Le interviste condotte dal Censis evidenziano
tuttavia come la mobilità, per realizzarsi, deve essere finanziata in
modo adeguato e che il ricorso al risparmio personale e all’intervento
delle famiglie è ancora estremamente elevato, e questo accade in molti
paesi europei e non solo in Italia.
di Vittoria
Gallina da Education 2.0
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