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Spesa pubblica: Cultura, parola sconosciuta ai tecnici di Palazzo Chigi. Lontana l'idea di usare questa risorsa come volano per l'economia.

Rassegna stampa
Nella manovra "salva l'Italia ricca" a scapito dei soliti indifesi e senza potere: operai, insegnanti, studenti e precari di tutte le professioni, la grande assente per far ripartire il paese è la Cultura.
Nei pacati discorsi di Monti la parola Cultura non è mai apparsa, quasi che l'Italia non fosse quello stato con la più alta concentrazione di beni culturali. Pochi giorni fa Report ha strutturato una trasmissione sui beni culturali evidenziando uno dei mali italici: l'incapacità nel gestire musei e monumenti. Basta pensare alle migliaia di ville venete che non sono riuscite a consorziarsi per formare un brand e quindi una rete museale che determini il rilancio economico per un territorio in profonda crisi produttiva. D'altronde l'abbecedario del bravo premier, in Italia come in Europa, mette al primo posto il risanamento economico senza voler coniugare i sacrifici richiesti ai cittadini con un progetto di sviluppo economico che metta al centro la Cultura.          
 In fondo Adriano Olivetti non ha insegnato nulla e non si può certo pretendere dai ministri-professori che si mettano a studiare ciò che l'imprenditore di Ivrea fece per la sua città, gli operai e l'Italia. O che leggano l'Ordine Politico delle Comunità scritto da Adriano nel 1945 sul tema del federalismo. Sarebbe una presunzione pensarlo e pretenderlo da accademici che non hanno espresso nessun progetto politico di comunità, città, stato.  
Non capire che l'Italia può rinascere attraverso una gestione seria della Cultura, come volano dell'economia nazionale, dalle soprintendenze ai Musei, dalle Aree Archeologiche alle Biblioteche, dalle Università alle scuole primarie è frutto di una miopia che va ben al di là dello spread e del debito. Se questo offuscamento avvenisse per colpa dei politici forse non ci faremmo caso, il fatto che siano degli intellettuali è anomalo e preoccupante. Non occorre andare lontano, basta vedere quanto è stato destinato dal governo francese per il 2011-2012 al ministero della cultura diretto da Frédéric Mitterrand. Le risorse sono pari a 7,4 miliardi di euro, di cui 124 milioni solo per la ricerca culturale e ben 4,6 mld per libri, industrie culturali e media. Ciò mette in luce la differenza abissale nel concepire la Cultura tra i due paesi. La questione è complessa e riguarda il rapporto tra cittadini e Stato, nella formazione del cittadino di domani, nell'importanza che deve essere riconosciuta all'istruzione perché solo attraverso essa i cittadini si possono evolvere culturalmente e costruire un'Italia migliore. Ciò non verrà attuato dagli italiani ma dai nuovi italiani quelli nati dagli immigrati che alla fine, se ne avranno voglia e se glielo permetteremo, riusciranno a essere molto migliori di noi. Solo loro avranno la forza di ricostruire questo paese, troppo conservatore e troppo vecchio per cambiare.
Un paese incapace di costruire il proprio futuro guidato da schiere di politici, vecchi e giovani, Pdl e Pd, Udc e Fli, che non hanno mai messo al centro della loro azione la Cultura. Ciò può valere anche per taluni intellettuali allineati al sistema dominante, che non hanno avuto la forza etica di orientare le scelte politiche; come accaduto per i protagonisti rivoluzionari della Meglio Gioventù, il film di Marco Tullio Giordana, diventati, dopo il '68, parte di quel potere che combattevano.
E' una sconfitta per tutti, per chi fa parte del mondo della Cultura e per la politica nei confronti della tecnica che oggi ci governa. Una tecnica che non costruisce nessun immaginario ma ci radica al presente senza ipotizzare un futuro migliore che DEVE ESSERCI a partire dalla Cultura. In questo modo dovremo porci una domanda che sancisce una volta per tutte cosa vuole essere l'Italia? Dovremo smettere di concepire lo Stato con logiche novecentesche basate su industrie manifatturiere, acciaierie, agricoltura, non rendendoci conto che il mondo è cambiato ma noi siamo rimasti a guardarlo senza adeguarci. Abbiamo pensato che avremmo continuato a fare automobili, a coltivare i campi, a spostare le merci su gomma, senza pensare di investire nella manutenzione del territorio, nella gestione dei beni culturali, nella tecnologia, nel rendere più attrattive e migliori le nostre scuole di tutti gli ordini, per competere così e vincere a livello globale. Tutto questo non è accaduto, forse è ora di cambiare partendo dalla Cultura e considerandola come il vero motore dello sviluppo. Allo stesso modo in cui Fanfani grazie al Piano Ina Casa, ricostruì e diede energia positiva alla nostra rinascita del dopoguerra.   (di Emanuele Piccardo da http://rstampa.pubblica.istruzione.it)

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Postato il Martedì, 13 dicembre 2011 ore 07:19:29 CET di Pasquale Almirante
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