Ai ragazzi questa
scuola non piace. Nemmeno ai docenti, se è per questo. Non convince, né
tantomeno vince. E dunque?
Lo sapevamo che i ragazzi italiani (nel segmento della scuola media)
sono i ragazzi ai quali la scuola piace meno al mondo? Lo supponevamo.
Lo sapevamo che alle medie i nostri ragazzi vanno malissimo a scuola?
Lo supponevamo e i test INVALSI (per quanto limitati, parziali, non
contestuali, lo fotografano). Lo sapevamo che le punte di dispersione
scolastica iniziano alle medie? Supponevamo anche questo.
Quest’anno tutte queste supposizioni, campanelli d’allarme e
indicazioni sono messe nero su bianco nel rapporto annuale della
fondazione Agnelli.
Il rapporto del 2011 è tutto dedicato al ciclo intermedio
dell’istruzione,quello della secondaria di primo grado : 160 pagine di
numeri e analisi che descrivono un fallimento. Analisi che derivano
dall’esame incrociato di questionari distribuiti perlopiù ai nostri
colleghi delle medie e dunque: ce lo siamo detti in faccia. Non c’è che
dire. Dai questionari si evince anche che gli scontenti non sono solo i
ragazzi: 1 professore su 3, alle “medie”, se può, scappa. Uno su
dieci critica il suo mestiere e un maestro (o una maestra) su 4 delle
elementari le considerano un disastro, anche se si tratta di un ciclo
superiore e quindi una specie di traguardo a cui aspirare. Nulla,
bocciate anche da loro.
I ragazzi poi, impietosi: gli studenti delle medie sono quelli
che in massa alla domanda “ti piace la scuola?” Rispondono un secco
“No”, a differenza dei fratellini e sorelline più grandi o più piccoli.
Mi piace o non mi piace. Pollice verso o alto. E sarebbe il meno.
Volendo.
Il vero problema è la ricaduta drammatica sui “successi scolastici”,
anzi, sugli insuccessi. Se fino agli anni ’70 il fine della scuola
media era assicurarne l’accesso oggi è assicurarne il successo. Ma
così non è affatto. Le punte massime di dispersione scolastica
come anche dei ritardi delle competenze e conoscenze hanno origine
nella scuola media. Trovano humus e radici in quel “non mi piace”
troppo sottovalutato. E anche le punte massime dei ritardi nei livelli
cognitivi hanno ambiente favorevole tra quei banchi.
Il perché lo rintracciamo nei mille rapporti e nelle mille indagini, di
cui questo in esame è solo l’ultimo nel tempo. Potremmo farne oggetto
di dibattiti per giorni, ma sono analisi che hanno avuto ricaduta
operativa, leggi provvedimenti nazionali di valore didattico
e non economico, se non il famigerato taglio delle ore di italiano
e di tecnologia, pari a zero tra i corridoi della scuola secondaria di
secondo grado.
La prima e più macroscopica realtà della scuola media è: chi vi
insegna ha in media 50 anni (con l’innalzamento dell’età
pensionabile la media si adeguerà verso l’alto). E’ entrato in classe
in media 20 anni fa e senza nessuna preparazione didattica-pedagogica
nella maggioranza dei casi. E’ stanco, demotivato (economicamente e
moralmente) e frustrato. Non per il suo lavoro, che ama e svolge sempre
con dovizia, ma per le condizioni in cui è costretto a svolgerlo. E’ è
una precisazione da fare e che comporta una sostanziale differenza: si
ama questo lavoro ma ci si sente impotenti nello svolgerlo per
molteplici motivi.
Negli ultimi 20 anni (i venti anni che hanno davvero cambiato il mondo
e le relative coordinate spaziotemporali) proprio in questo segmento,
quello della scuola media, non si è predisposto nessun
impianto di aggiornamento didattico in servizio (cosa che
incidentalmente è accaduta alle elementari, unica categoria di
insegnanti che hanno ricevuto un aggiornamento unitario obbligatorio
nazionale in occasione dell’introduzione dei moduli, e non è un caso: è
il ciclo che funziona meglio, addirittura tra i migliori al mondo). I
ricambi della classe docente si sono ridotti al lumicino, causa i tagli
e il blocco delle assunzioni. Ne viene fuori un ambito bloccato dai
fatti, non dalle volontà di chi vi lavora. Ammirevoli negli
sforzi sovrumani i docenti quando cercano di fare da sé, ma la
disciplina pedagogico-didattica non si improvvisa e non si risolve
nemmeno nella “certificata esperienza di tanti e tanti anni” della
maggioranza dei colleghi, e neanche nei corsi parziali ed
estemporanei decisi dai singoli collegi dei docenti, per il semplice
motivo che non funzionano. I risultati si avrebbero dal combinato
disposto di esperienza e provvedimenti di formazione permanente
qualificata.
L’aggiornamento va predisposto in modo unitario, obbligatorio e quindi
gratuito, qualificante e generale a cura degli organismi centrali dello
Stato, magari modulandolo a seconda dei contesti per macro aree. I
docenti lo chiedono e nessuno tra i mezzi di informazione lo rileva:
che vorrebbero aggiornarsi. Primo perché non interessa a nessuno
saperlo: è più comodo e semplice fotografare i mali che non i
bisogni. Se i successi scolastici non ci sono è molto più semplice
individuare colpevoli dietro le cattedre piuttosto che analizzare e
trasmettere le complesse e reali cause. A scontrarci con
genitori insoddisfatti e opinione pubblica che ci individua come
colpevoli poi ci siamo noi, che vorremmo cambiare, studiare,
migliorare, in una parola, vivere meglio, mannaggia. Noi e i
ragazzi.
E’ dunque possibile mantenere lo stesso metodo didattico per
decenni, direi secoli? Quello della lezione frontale
rigida, entrare in una classe oggi e ripiombare alla fine dell’800
con il gessetto, la penna rossa, il compito in classe e lo schema
del“la lettera”da spiegare?(la lettera rientra nei programmi
ministeriali, sfido chiunque a ricordarsi quando è stata l’ultima volta
che ne ha scritto una, l’ha messa in una busta e l’ha
spedita). Perché la prima a urlare nei corridoi potrei essere io,
docente.
La lezione frontale , specie a quell’età, non funziona più,
ammettiamolo con tutta l’umiltà e l’onestà mentale possibili. Non
perché sono svogliati, maleducati, disinteressati. Ma solo e soltanto
perché le abitudini mentali-spaziali e temporali sono oggi cambiate. E’
folle non ammetterlo. Specialmente in un segmento di età in
mutamento vertiginoso.
Con tutti gli sforzi che si possono fare, se non “ci si adegua” (e sto
semplificando moltissimo per non entrare in un settore ostico ai non
addetti ai lavori) a quei mutamenti, e lo si fa in modo corretto,
scientifico, professionale, si ottiene quello che abbiamo: risultati
peggiori e massima dispersione. Specie nelle zone depresse del paese,
là dove contesti familiari e sociali non suppliscono alla mancanza di
motivazione personale: unica e universale molla nei processi di
apprendimento. Si devono mettere in campo cioè strategie adeguate. Non
possiamo inventarcele : vanno studiate, predisposte e messe in campo da
direttive ministeriali. Le famose direttive nazionali della Scuola sono
queste: non i grembiulini e le boiate che la Gelmini vi ha raccontato
in questi anni.
Questo chiediamo: fateci studiare. Non perché non siamo bravi, ma per
metterci nelle condizioni di essere efficaci (leggi successo
formativo). Non solo efficienti (leggi assicurare il badantato a
scuola). A questo dovrebbe finalmente servire il Ministero, non solo a
dirci cosa non va e quanti siamo. Ma a dare strumenti unitari e
aggiornati di formazione in servizio per rispondere alle rivoluzioni
sociali e culturali in atto. Rivoluzioni che non sono solo
intorno a noi ma si sono verificate in modo ancora totalmente
inesplorato e ignoto nelle sinapsi dei nostri ragazzi e dei nostri
figli: i nativi digitali. Specie in viale Trastevere. Tutti lo dicono
ma pochi si regolano di conseguenza: ci mandano le lavagne
multimediali. I costi delle ricadute deleterie di questo stato di cose
sugli insuccessi formativi chi li pagherà? Il risparmio sulle pensioni?
Costi che non sono bazzecole, ma ritardi che influenzano le
macroeconomie di scala e dunque da un lato prendi e dall’altro paghi
persino di più senza mettere in rete i dati. Che tipo di “sfida dei
saperi” potremmo vincere adesso armati della clava di Odissea nello
Spazio?
Aggiornare i metodi. Non basta la lavagna multimediale: quello è uno
strumento non un metodo, che sia chiaro una volta per tutte. Aggiornare
i linguaggi e i tempi, persino gli spazi: ecco la cosa complessa.
Servono reti pluriambito per agire sulla scuola. Servono organizzazioni
didattiche diverse, scardinamenti di metodi, togliere via la polvere di
posizioni fisse da secoli: cattedra-banco. E non basta nemmeno
l’Autonomia Scolastica delle singole scuole, rimessa in campo dal
neoministro Profumo. Sono necessarie delle linee generali di indirizzo
organizzativo e adeguamento formativo obbligatorie che solo i Ministeri
possono coordinare e regolare qualitativamente e quantitativamente. Per
far ciò servono risorse: ma vi posso assicurare in misura molto minore
del nostro armamento bellico. Un tavolo tecnico pluriambito
adeguatamente e qualitativamente alto con relativa messa in campo di
azioni conseguenti di aggiornamento su scala nazionale costa meno di
uno solo degli F-non so quanto appena acquistati [sono i
cacciabombardieri F-35, n.d.r.]. E vi posso assicurare che sono armi
ben più potenti per vincere le guerre che ci aspettano. Spero che lo
capisca il Parlamento intero, non solo il sottosegretario del singolo
ministero dedicato. Sono cose necessarie se ci mettiamo nei panni di un
ragazzo. Possiamo finalmente prenderlo in considerazione, lo studente?
Se a un ragazzo la scuola non piace non è solo perché “è un lavativo”,
se la trova estranea, ostile, “straniera” (perché parla proprio
un’altra lingua), ed è così che la trova adesso, non è colpa di
qualcuno in particolare, ma di un architettura di sistema
sbagliatissima, tranne qualche oasi di eccezioni. Accade che non solo
il ragazzo non impara un bel nulla (che è il fine primario della
scuola), ma addirittura matura il rifiuto. La scuola fallisce. Con
grande scoramento di noi docenti per primi che dobbiamo combatterci
minuto dopo minuto con quel ragazzo e i suoi limiti e le sue
potenzialità inesplorabili. E ciò accade in misura maggiore, ripeto,
proprio nei luoghi in cui è necessario recuperare ritardi contestuali,
piuttosto che amplificarli. E’ un rifiuto, quello dei nostri
alunni, che l’Italia intera non può permettersi, non dico la sua
famiglia o la mia scuola: l’Italia intera. Perché fattore di
sviluppo complessivo di una nazione sono i livelli degli apprendimenti
e delle competenze.
E allora noi docenti ci chiediamo: perché gli ingegneri adeguano il
loro mestiere ai tempi? I medici poi non ne parliamo e noi invece no?
Perché queste resistenze (sempre più deboli comunque) da un lato
per autoreferenzialità , quello del docente e dall’altra per complicità
colpevole di non affrontare spese, lo Stato?
Ho semplificato molto i passaggi di un ragionamento complesso, ma
solo per farlo arrivare a tutti: noi docenti non veniamo messi nelle
condizioni di capire cosa va aggiornato e perché e come. Fosse solo per
vivere in modo adeguato il nostro mestiere, che senza strumenti e
metodi adeguati diventa impossibile da svolgere. Per vivere meglio e
senza le inevitabili frustrazioni che provocano quelle risposte di cui
sopra: uno su tre di noi docenti dalle medie scappa. Non smentitemi
se fate parte dei due su tre che rimangono
Dal rapporto, e anche questo supponevamo, si evince che sono le
discipline da “lezione frontale” ad avere la peggio: materie letterarie
e scientifiche. Coincidono con gli insegnanti sicuramente “più bravi”
ma maggiormente autoreferenziali (è così) e di età più avanzata:non è
giovanilismo, è quotidianità e familiarità con strumenti, linguaggi e
metodi aggiornati. Quelli refrattari a cambiar metodo, ad ammettere non
le proprie inefficacie, o mancanze, ma l’inefficacia del metodo e
dell’organizzazione. Ti rispondono “ha sempre funzionato e io sì che i
ragazzi li conosco”. La stessa autoreferenzialità di certi genitori.
Basterebbe poco: lavorare sull’empatia. Specie a quell’età: prolungare
il tempo scuola ma per modularlo con la didattica innovativa, con il
cooperative learning, con i laboratori , quello che da sempre, senza
saperlo, fanno i docenti delle “educazioni” artistica, musicale,
tecnologica, motoria..ottenendo ovviamente risultati migliori, non
perché “più bravi” ma perché più adeguati ai tempi e alle “empatie”
naturali di quell’età.
Questo poco da farsi (che poco non è per le complessità che implica
operativamente e teoricamente il concetto di empatia) è il molto da
capirsi, specie nell’autoconsapevolezza del richiederlo con cognizione
di causa. E i primi a non voler fuggire dalle medie saremmo proprio
noi, gli insegnanti, se ci divertissimo di più a insegnare. Ma io
continuo a dire, e scusate se insisto: la scuola è un problema
politico. Non affrontare in modo adeguato e non ideologico problemi
seri come questo è un problema doppiamente politico.(diMila
Spicola da http://laricreazionenonaspetta.comunita.unita.it)
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