Non è dato sapere
se Shakespeare avrebbe apprezzato il titolo che Dimiter Daphinoff, oggi
docente dell’Università di Friburgo, coniò nel 1983 per una sua
recensione di tre saggi dedicati al Bardo: Shakespeare, Un Uomo per
Tutte le Stagioni. Tre recenti studi tedeschi. Infatti, anche se in
tale titolo è evidente il riferimento alla famosa pièce teatrale (poi
trasferita altrettanto felicemente al cinema nel 1966 e nel 1988) che
il drammaturgo inglese Robert Bolt (1924-1995) ritagliò sulla
monumentale figura di Thomas More nel 1954, non bisogna lasciarsi
trarre in inganno: nella sua recensione Daphinoff applica a Shakespeare
la qualifica di uomo per tutte le stagioni per evidenziarne non già la
stessa appartenenza cattolica che condusse al martirio l’autore di
Utopia, quanto piuttosto la disponibilità (non di rado estorta, per
esser sinceri...) che i suoi straordinari testi sembrano dimostrare nei
confronti delle più diverse prospettive critiche - quali che siano la
loro origine nel tempo e la loro provenienza
culturale.
In ogni caso, anche senza il contributo di Daphinoff e senza la
mediazione del titolo dell’opera teatrale di Bolt, la questione della
fede religiosa di Shakespeare e della misura della sua influenza sulle
sue opere gode oggi di una rilevanza, di un approfondimento e di una
ricezione meno violentemente conflittuali (anche se tuttora non sempre
pacatamente accettati) che in epoche passate. Su tutte, ad esempio,
quella vittoriana in cui, proprio su tale terreno minato, si
combatterono epiche guerre culturali per il “controllo” della somma
istituzione shakespeariana, giacché tale è sempre stato il Bardo –
un’istituzione nazional-culturale – per l’English-speaking world,
insieme a quello straordinario intellettuale – se ne noti la
definizione estesa in senso anche “extraletterario”(!), please – che
tutti ammiriamo. I vittoriani,
infatti, si divisero spesso tra chi ne difendeva il profilo anglicano e
chi, soprattutto dopo l’Atto di Emancipazione dei cattolici promulgato
dal Parlamento di Londra nel 1829, ne faceva emergere e ne valorizzava,
invece, il faticoso e rischioso diritto di essere quello che era stato
fin dalla nascita e di averlo detto nelle sue meravigliose creature
letterarie con la necessaria prudenza richiesta dai suoi tempi.
In quel periodo – come e in altri – insomma, ci si divideva
sull’esperienza di criptocattolico di Shakespeare, magari non
coraggioso fino al martirio (persino questo gli è stato rimproverato di
recente...); magari neanche tanto cripto- agli occhi dei contemporanei
(chissà dove potrebbero condurci le ricerche condotte in questa
prospettiva da specialisti del calibro di Dennis Taylor, Claire
Asquith, Richard Wilson, Eric Sams, Ernst Honigmann, John Klause, Peter
Milward, Ian Wilson, per citarne solo alcuni); magari – anzi – così
poco cripto- da poter essere annoverato
tra i “collaborazionisti” (in senso assai lato e a corrente assai
alternata e dolorosa, s’intende, per loro) della corte di Elisabetta I,
insieme a musicisti dal genio universalmente riconosciuto come i
cattolici Thomas Tallis (1505-1585) e William Byrd (1539/40-1623).
Chi vivrà vedrà, almeno shakespearianamente parlando. Resta, però,
incrollabile una necessità per coloro che, con intelligenza e
discernimento, seguono nel corpus (letterale e letterario) del Bardo la
rotta criptocattolica (continuo a chiamarla così non per esibizionismo
neologistico, ma per far risuonare gli armonici esistenzialmente
faticosi della sua obbligata e insuperabile segretezza): si tratta della necessità di evitare tanto
la Scilla di chi considera Shakespeare “una sorta di divinità olimpica
indifferente nei confronti dei conflitti religiosi dei suoi giorni”,
quanto la Cariddi di chi, al contrario, lo rappresenta come “un
individuo astuto ed inafferrabile, capace di nascondere le sue ferme e
cristalline convinzioni settarie a un regime persecutorio costantemente
impegnato nella disintegrazione del dissenso eccessivamente vistoso”
– per citare la formulazione estrema di tale antitesi che è stata
richiamata in un interessante volume di John Klause pubblicato nel 2008
(Shakespeare, the Earl and the Jesuit).
Da qualche tempo, il lato criptocattolico (o comunque lo si voglia
chiamare) di Shakespeare (che – confesso a scanso di equivoci e non per
amor d’esternazione – tendo a considerare più un intero perimetro che
un solo lato) lo si vede (finalmente!) affiorare più frequentemente che
in passato anche in Italia ed in forme diverse. Lo si intravede, ad
esempio, sullo sfondo dell’equilibrio (complessivamente e
prudenzialmente) aconfessionale che Piero Boitani mette in mostra nel
prezioso Il Vangelo secondo Shakespeare (2009), lasciando i “problemi
intriganti” di natura religioso-politico-istituzionale “agli storici, e
a quelli della cultura e delle mentalità in particolare” e dipanando un
filo – per così dire – tendenzialmente antropocentrico in base al quale “Shakespeare ha
costantemente presente il Vangelo cristiano, ma compone, da drammaturgo
supremo e libero quale egli è, un testamento (sono le sue ultime opere)
suo: il Nuovo Testamento di William Shakespeare”.
Sono, invece, insolite per la scena editoriale italiana l’adesione
personale, la determinazione interpretativa, la solidità progettuale e
la coerenza confessionale (del soggetto esaminato e dell’autrice) con
cui il lato criptocattolico di Shakespeare si manifesta in un saggio
recentissimo di Elisabetta Sala dal titolo assai suggestivo: L’enigma
di Shakespeare. Cortigiano o
dissidente? (Edizioni Ares, 2011, pp. 460, euro 24). Le risposte a tale interrogativo che vi
emergono sono spesso convincenti grazie a un paziente lavoro di
ricostruzione dello status quaestionis e di revisione ermeneutica di
luoghi shakespeariani spesso troppo frettolosamente dati per acquisiti:
alla fine della lettura, non si può non convenire con l’autrice che, in
generale, “l’enigma di Shakespeare si fa meno enigmatico, la sua
passione per il teatro si fa missione segreta. Perché le sue simpatie,
a quanto emerge in modo sempre più chiaro da studi autorevoli, andavano
con la minoranza perseguitata e le sue opere cercarono, più o meno
cautamente, di dar voce a chi non aveva più il diritto di parlare”.
È giunto il momento della morale della favola che formulo come segue a
mo’ di conclusione. Sembrerà, forse, troppo ardita, pretenziosa o
stiracchiata, ma, come dice Amleto, “dobbiamo parlare facendo il punto
o l’equivocare ci perderà” (V, I, 125-126). Eccola. Da un dibattito
vero, non ideologizzato e sempre più intenso su questi aspetti spinosi
del genio shakespeariano – da un dibattito, cioè, che non rinunci ad
occuparsi della reale totalità della sua esperienza e che sappia
davvero dar voce alla pluralità di posizioni ermeneutiche in campo,
valorizzandone sia la libertà di approccio, sia l’imprescindibile
responsabilità nei confronti di colui di cui si ascolta la voce
testuale – non potrà che venire non solo un ovvio e utile contributo
agli studi shakespeariani in Italia, ma anche, più in generale, nuova
energia vitale al mondo della cultura del nostro amato Paese, perché
sappia assumersi un ruolo coraggioso e fecondo nella difficile
costruzione del suo futuro. (di Enrico Reggiani da
http://www.ilsussidiario.net/News/Cultura/)
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