Le metafore
dell’«anello debole» e della scuola media «bocciata» si sono sprecate,
ma rimangono forse quelle che rendono meglio la difficile condizione in
cui versa la nostra scuola secondaria di primo grado. I dati vengono
dal rapporto che la Fondazione Giovanni Agnelli ha dedicato quest’anno
alla scuola media italiana. Un ritratto preoccupante, che documenta
numeri alla mano ciò che gli addetti ai lavori avvertono da tempo: mancanza di equità, demotivazione, calo
negli apprendimenti sono la firma con cui la scuola media spedisce i
giovani alle superiori o li mette alla porta del sistema scolastico.
I dati della Fondazione Agnelli aiutano a capire il male oscuro della
«scuola di mezzo». Dopo il 1962, quando fu istituita, la scuola media
ha garantito a tutti un livello più alto di scolarità, ma cinquant’anni dopo la qualità
dell’insegnamento non è all’altezza e relega l’Italia molto, troppo
indietro nelle classifiche europee. Non solo: gli studenti con
genitori meno istruiti hanno un rendimento scolastico inferiore. Di
tutto questo Ilsussidiario.net ha parlato con Marco Gioannini,
ricercatore e responsabile comunicazione della Fondazione Agnelli.
L’Italia è il paese con il calo degli apprendimenti più netto fra
elementari e medie. Perché?
Gli studenti italiani nel passaggio
elementari-medie rallentano molto più degli altri la loro velocità di
apprendimento. È un calo fra i più intensi e preoccupanti del mondo. La
spiegazione non può essere una sola; è complessa, e noi abbiamo tentato
di esplorarne le cause. Dico subito che la responsabilità non è degli
adolescenti italiani, che sono simili ai loro coetanei stranieri per
capacità, fragilità, aspirazioni.
Se non è per loro, il problema sta dentro la scuola.
Esatto. E qui abbiamo trovato due
spiegazioni importanti: la prima riguarda gli insegnanti, la seconda la
scuola stessa. La scuola media è oggi una scuola senza missione. Quella
che aveva, l’ha tradita: doveva essere scuola per tutti e al tempo
stesso di qualità. Non è stato così.
Cosa non ha funzionato nella riforma della scuola media unica,
introdotta nel ’62?
Quella riforma va collocata nel suo
contesto storico. Parliamo di un periodo in cui il primo
problema in Italia era ancora quello di alfabetizzare quanta più gente
possibile, e la scuola media unica nasce per far coseguire la licenza
al maggior numero di 14enni, elevando il livello dell’istruzione
elementare. Il problema era di «quantità» e la scuola media riuscì a
compiere questa misione abbastanza in fretta, perché la scolarità
raggiunse il 100 per cento già negli anni settanta. Però nel frattempo
il mondo cambiava e passare un certo numero di anni sui banchi per
conseguire un titolo non bastò più;
diventava molto più importante ciò che si impara realmente. È la nozione di successo scolastico.
Alle possibilità di accesso non sono più corrisposte le opportunità di
successo, dice la Fondazione nel suo Rapporto.
È così. La scuola media è riuscita a fare la prima cosa, ma non la
seconda: non garantisce più a tutti
gli allievi le stesse opportunità di successo scolastico. E non lo fa
non perché finisce per creare divari di tipo socioculturale: quello che
conta, in altre parole, è la famiglia da cui si proviene. Quanto più
questa è istruita, tanto più sono buoni i risultati degli alunni.
È un gap che non si colma più?
Lo dicono gli studi internazionali: dappertutto, in tutti gli ordini di
scuola, piaccia o meno, l’origine
socioculturale continua a contare moltissimo nei risultati scolastici;
però ci sono Paesi in cui queste distanze sono contenute e vengono
accorciate, nella nostra media invece esplodono in modo sensibile.
Le cause?
Sono di natura strutturale. Innanzitutto
un passaggio troppo brusco
elementari-medie: si passa da una scuola empatica, dove il lavoro
coinvolge realmente tutti, e dove chi insegna usa talvolta metodologie
didattiche innovative e personalizzate, a una scuola fatta sullo stesso
modello delle superiori: il docente entra in classe, fa la sua lezione,
esce. Stop. E la scuola finisce lì. Viene poi il problema di una
particolare condizione dei docenti italiani.
Dal 1987 i docenti delle medie
registrano una caduta quasi verticale. Dai 283mila del 1986-87 ai
178mila del 2011. Perché?
Quello che lei cita è un dato che di per sé non è negativo e si spiega
facilmente: il numero dei docenti segue in modo abbastanza fedele
quello degli alunni, in calo demografico. Invece il dato negativo è che la riduzione
degli organici - e non mi riferisco solo ai tagli recenti del ministro
Gelmini, ma ad un trend di 20 anni - non è stata accompagnata da un
ricambio generazionale. Questo ha fatto sì che la popolazione docente
sia oggi estremamente vecchia, la più vecchia dei paesi Ocse.
Ma è di per sé un male?
Affatto. Non si vuol dare un giudizio di valore: ci possono essere
ottimi insegnanti anziani e pessimi insegnanti giovani. Il fatto è che sono gli stessi docenti, come
i dati dicono in modo inequivocabile, a manifestare il disagio. Non
incontrano i preadolescenti di oggi, dichiarano di non avere una
preparazione didattica e pedagogica adeguata per insegnare ai giovani
che hanno di fronte, di non riuscire a dialogare con le famiglie.
Il numero in calo non sarà dovuto
anche al fatto che insegnare nella media è sentito come dequalificante,
non appetibile?
Certamente. I docenti, anzi, lo riconoscono. Ed è ovvio che risentano di una situazione
negativa dal punto di vista della carriera e della retribuzione: è
l'esito di un «patto scellerato» tipico del nostro Paese.
Quale patto scellerato?
Quello per cui lo Stato ai
docenti dà poco, e al tempo stesso chiede poco. Questo, se si vogliono
avere insegnanti più motivati e preparati, non va bene. Vanno pagati di
più, ma poi bisogna chiedere loro di fare di più, di fare più ore.
Nel Rapporto proponete anche delle soluzioni. Per esempio quella di una
classe docente esclusiva per le medie.
Bisogna cogliere l’opportunità, che i
prossimi anni offrono, di ricambiare la classe docente. Andiamo anzi
necessariamente verso il tempo di un ricambio. I nuovi docenti
devono essere assunti con modalità che li rendono dei professionisti di
questo livello scolastico: non solo devono conoscere la loro materia, ma avere anche la «cassetta degli attrezzi»
pedagogica e didattica per insegnare a persone di 11-13 anni, un’età
che non assomiglia a nessun’altra. Dobbiamo evitare di avere docenti
parcheggiati nelle medie in attesa di finire al liceo.
Parlate anche di «personalizzazione».
Come si fa?
Non può certamente voler dire un rapporto di uno a uno tra insegnante e
studente, questo è ovvio. Ma i
programmi devono essere più calibrati sulle esigenze del singolo,
perché la scuola media è quella che raccoglie il massimo della
diversità. Non mi addentro nel problema della lezione frontale: molti
docenti sono bravissimi in questo, il punto però è che nella scuola
media di oggi gli insegnanti non sanno fare altro. Magari sanno che
esistono altre metodologie, talvolta anche più efficaci, ma non le
sanno usare perché nessuno li ha mai messi in condizione di farlo.
Il tempo scuola?
Occorre dilatarlo. È il contrario di
quello che si è fatto finora: noi crediamo molto nella scuola del
pomeriggio, il che non vuol dire essere sempre a lezione, ma fare
lezione, approfondimenti, recupero, musica, teatro, sport, eccetera.
Quelle che dice non sono cose da poco.
Le riforme a costo zero sono
rarissime, quasi impossibili. Il momento è delicato, è vero, ma occorre
anche guardare avanti.
E a proposito del curriculum?
È un dibattito da aprire. Riteniamo
che 11 materie siano troppe, con il rischio molto forte di fare un po’
di tutto e piuttosto male. Bisognerebbe concentrarsi sulle discipline
più importanti, quelle che decidono del successo scolastico e di una
solida formazione: lettura, scrittura e comprensione dei testi,
matematica, storia, scienze, una lingua straniera. È un’ipotesi. Il
curriculum non può essere oggetto di affermazioni apodittiche, si deve
discuterne, certamente, ma secondo noi è uno dei temi più urgenti.
Anche nella scuola media ci sono un nord e un sud del paese?
In questo caso ci sono le differenze che normalmente si vedono in tutto
il sistema scolastico. Non c’è una
specificità delle medie, si allineano ai dati generali che vedono il
sud arrancare.
Le raccomandazioni di Bruxelles hanno riaperto il tema dei dati
Invalsi. Secondo voi andrebbero resi pubblici o no?
La mia risposta è sì, ma questo è un problema più complicato di quanto
può sembrare a prima vista. Non
dobbiamo dimenticare che i dati Invalsi hanno come primo obiettivo di
fornire alle scuole le informazioni per capire qual è il loro stato di
salute, se si posizionano bene o male rispetto alle altre, e per
innescare dei processi correttivi di miglioramento. Poi alle famiglie,
è vero, servono informazioni per fare le scelte che spettano loro di
diritto.
Ma le elaborazioni Invalsi hanno una loro intrinseca difficoltà e sono
difficilmente comunicabili...
Questo però vale anche per i risultati degli esami di terza media e di
maturità: dietro l’apparente semplicità di un numero si nascondono
livelli reali di apprendimento completamente diversi. In altri termini, al sud abbiamo quantità
di 100 che provengono da medie di apprendimento molto più basse, come
dimostrano gli stessi dati Invalsi. Ritengo che sulla comunicazione di
questi dati ci sia un lavoro di comunicazione molto importante da fare.
Non crede che ci sarà sempre qualcuno destinato a rimanere indietro?
In questo paese si parla spesso a sproposito di eccellenza e di merito,
come se promuovere il merito e l’eccellenza nella scuola fosse
necessariamente in antitesi con l’equità delle opportunità di successo.
I nostri dati dimostrano che questo non è vero. La scuola media italiana potrà salire di
qualità solo quando sarà più giusta e più equa nelle possibilità
d’accesso.
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* Marco Gioannini
Ricercatore e responsabile comunicazione della Fondazione Giovanni
Agnelli
Marco Gioannini, nato a Torino nel 1958, lavora come ricercatore presso
la Fondazione Giovanni Agnelli. Nell’ambito dei programmi di ricerca
della Fondazione Agnelli è stato fra gli autori dei tre Rapporti sulla
scuola in Italia (2009, 2010 e 2011), pubblicati da Laterza, e del
volume Gli alunni con disabilità nella scuola italiana (2011). Per la
Fondazione Agnelli cura, inoltre, la comunicazione con i media.
Laureato in filosofia all’Università di Torino, ha conseguito il Master
in Logic and Scientific Method alla London School of Economics. Nel
tempo libero, è autore di saggi storici, fra cui: Marengo 1800. La
battaglia che creò il mito di Napoleone; Custoza 1866. La via italiana
alla sconfitta; e Bombardate l’Italia. Storia della guerra di
distruzione aerea 1940-1945, tutti pubblicati da Rizzoli.