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Didattica: I ragazzi di strada che dicono addio alla scuola (di Marco Rossi Doria)

Rassegna stampa
Questo racconto di Marco Rossi Doria, nominato sottosegretario all'Istruzione del governo Monti, è stato pubblicato in Consiglio di classe. Gli scrittori raccontano la scuola italiana a cura di Angelo Ferracuti e Stefano Iucci, Ediesse 2009.
L’agenda di Lisbona della Ue aveva individuato come suo compito rispondere ai milioni di ragazzi e ragazze che abbandonano la scuola precocemente. In inglese: early school leavers. Infatti chi non riesce a scuola o se ne va dagli studi o non ottiene una qualifica professionale sarà povero per tutta la vita. Gli early school leavers italiani sono moltissimi.
Sono il 20,9% di tutti i ragazzi tra i 16 e i 24 anni, circa 900.000 persone l’anno. Sono una percentuale sul totale molto maggiore di quella dell’Europa dei 15 che è di 14,9% e anche dell’Europa allargata che è di 17,6. E gli early school leavers italiani non stanno diminuendo: abbiamo ogni anno circa 40.000 ripetenti nella scuola media inferiore (2,3%), poco meno di 100.000 interruzioni della scuola media superiore e 185.000 ripetenti e altri decine di migliaia di ragazzi che non si iscrivono neanche formalmente alla scuola superiore, dopo la terza media.           
Vivono ovunque. Ma sono in numero maggiore nelle aree urbane del Paese dove sono concentrate le famiglie povere e con basso grado di istruzione dei genitori. Alle famiglie povere con poca istruzione corrisponde - ovunque in Europa - una minore probabilità dei figli di terminare bene l’intero corso di studi superiore e l’università.

E’, infatti, sempre maggiore, almeno del doppio, la probabilità per un ragazzo il cui genitore ha un alto livello di istruzione di completare bene l’intero corso degli studi se paragonata con la probabilità di un ragazzo il cui padre ha solo l’istruzione di base. Il rapporto cambia, tuttavia, da paese a paese: 2,1 volte per la Germania, 2,4 volte per il Regno Unito, 2,8 per l’Olanda, 3,3 per Spagna e Francia, 3,6 volte nella media dell’Europa a 27. Ma ben 7,7 volte per l’Italia! La scuola italiana resta una delle scuole più “di classe”, una scuola che non emancipa chi ne ha più bisogno. Come e più che ai tempi di Don Milani…

Indicativo presente, pezzi da un taccuino

La prima volta che lo incontro, Gino ha dodici anni. Sta fuori dall’aula in una delle quattro scuole medie dove vanno i ragazzini dei Quartieri Spagnoli. Il sole entra dai finestroni della scuola che guardano verso il mare. Gino sta fuori dall’aula. E’ seduto accanto alla bidella nel corridoio. Canta a squarciagola una canzone neomelodica - in un dialetto rigato da strane incursioni prese dal gergo televisivo. La trovo becera questa canzone. E il tono della voce è insopportabilmente alto. Per disturbare quanto più possibile. Le parole cantate sono particolarmente tristi: la lei se n’è andata senza dire nulla e il suo lui soffre e si lamenta…. il solito blues. La bidella è lì per ammansirlo, contenerlo a fianco al banco posto nel corridoio… Gli versa addirittura il caffè messo su per i professori al cambio di ora. Cerca, con alterni risultati, di fargli abbassare la voce.

Gino è poi finito in carcere per una storia di scippi ripetuti. E’ uscito. Ora fa lavori saltuari. Porta caffè, fa traslochi con un’apecar, fa il cameriere a giornata per le cerimonie ai ristoranti, aiuta la mamma a pulire le scale dei palazzi, scartavetra per il cugino imbianchino, vende partite di vestiti rubati dai Tir. Mi fa una simpatia che non si sa. E’ per come è fatto, per come dice di sé; non lo so neanche io perché. Lo incontro spesso a uno degli incroci dove si passa e si sta. Mi abbraccia. Mi parla della sua volontà di emigrare. Si toglie gli occhiali scurissimi per dare senso alle parole.

Non gli credo e lo guardo senza rispondere. Ma sorrido. Non riesce a staccarsi da qui. Ci vuole fegato ad andarsene. Davvero. Lui sorride del mio sorriso. Sa quello che penso. Passa Carla che ha due figli e ha imparato a gestire una tintoria insieme al marito dopo che per anni sembrava una piccola Nikita. Aveva tredici anni quando non era più andata a scuola. Ne ha ventitre. E’ una donna fatta, equilibrata nei giudizi come non si è spesso a questa età e da queste parti. Le chiedo di Carmine. Si è fatto cacciare da una squadra di serie C benché fosse un vero fulmine sulla fascia sinistra.

E’ tornato a lavorare per una miseria dallo zio elettrauto. Non lo nomino ma quando sto fermo all’incrocio mi viene ogni volta di pensare a Salvatore. Che è morto a diciassette anni ammazzato per futili motivi. Non nomino neanche Sonia che lava scale dei palazzi. Né le due sue sorelle che si ammazzano di fatica nelle fabbrichette. So che a Gino non va di parlare di quella famiglia. Il gruppo si scioglie. Gino e Sonia si baciano sulle guance come fanno i vecchi amici. C’è a volte un garbo potente nei gesti degli incontri per strada. Mi baciano sulle due guance anche a me. Mi sono fatto più vecchio. Ho la barba che sembro “il vecchio e il mare”. Devo andarmela ad accorciare.

Non sto più ogni giorno con questi ragazzi. Ma vivo nel loro quartiere e mi va sempre di incontrarli e parlare. Mi fermo nei luoghi dove passano. Aspetto. Mi guardo in giro. Vengo a sapere i fatti. I fatti: il destino concreto dei ragazzi che non volevano più andare a scuola quando avevano dodici, tredici anni. I fatti dieci anni dopo. Carlo ha imparato a fare il barbiere e ora ha un piccolo salone tutto suo. Mario gestisce un bar, chi l’avrebbe detto mai. Anna è emigrata al Nord. Come Susi. Come Antonio. Si emigra di nuovo da Sud a Nord in Italia. Nessuno ne parla. E, invece, Luca perché entra e esce di galera per reati di quattro soldi? Eppure non è affatto scemo ed era un ottimo meccanico. Mi piacerebbe prendere una volta la briga di visitarlo in carcere. Ma so che non lo farò. E che dire di Diego? Pareva uno sfessato. E fa trenta chilometri di mattina e di sera per andare in una fabbrichetta al nero. Sono poveri i ragazzi che ho seguito lungo questi anni. Poveri che lavorano o che non lavorano ma sempre, immancabilmente, poveri. Questo sono i miei ragazzi di dieci anni fa. In una città senza sviluppo da decenni. Con la politica che è quel che è.

La prima volta che incontro Gino il signor ministro mi ha appena approvato il progetto di “primo maestro di strada”. E così faccio ufficialmente, anche di mattina, quel che per due anni ho fatto per scelta volontaria solo il pomeriggio, dopo l’insegnamento nella mia classe di scuola elementare. Con decreto del ministero la mattina non insegno ma giro per le scuole. A vedere come stanno i ragazzi del quartiere quando sono in aula. O nei corridoi. Cosa dicono i loro insegnanti su quel che capiscono o imparano e come e perché e quanto… E quanti giorni sono assenti e quanti presenti. E quante volte fanno a casa i compiti o in parrocchia o presso il doposcuola privato e in che modo. E, per capire meglio queste cose, il pomeriggio conduco anche io un doposcuola presso l’associazione di quartiere.

Ma, poi, prendo sempre più frequentemente a girare a lungo per le vie e le piazze, per le sale giochi e per i luoghi dove avvengono gli incontri e le attività dei ragazzi. Cammino. Osservo le scorribande sui motorini agli incroci. Imparo a incontrare le storie. O studio come vengono in vita le partite, le squadre e gli arbitraggi lì dove si gioca a pallone fino a notte. O prendo a frequentare i luoghi “d’a’ fatica”: le officine, le mansioni del lavoro di strada, i servizi. Dove un mastro, un padrone, un parente fa il suo mestiere quale che sia; ed è anche nella necessità di avere a disposizione ragazzi o ragazze per funzioni ausiliarie o di supporto o di accompagnamento o di apprendistato. In cambio di denaro. Al nero. Meccanici, baristi, pizzerie e pizzaioli, camiciai e sarti, falegnami, salumerie e salumieri, friggitorie, discoteche, parcheggi abusivi, fabbriche di borse o di fiori finti o di ceramiche per le bomboniere, venditori a rate e a credito di maglierie e profumi, pulitrici di condominio, venditori di saponi, imbianchini, gommisti, panettieri, barbieri, elettricisti, trasportatori, fabbri, idraulici, ferramenta, parrucchieri, tintorie, muratori, tappezzieri. Poi perdo tempo fuori dai meccanici dove i ragazzi si adunano per aggiustare i motori o presso i muretti dove si trovano per organizzare l’andata alla partita la domenica o la pizza in comitiva. O agli incroci più frequentati, dove si fermano volentieri a parlarti al volo. E dove si incontrano gli sguardi tra ragazze e ragazzi sui motorini nei lunghi corteggiamenti.

So che sto cambiando mestiere. Non sto insegnando a leggere, scrivere e far di conto. Seguo i ragazzi in quanto giovani cittadini. E non più come alunni. Cittadini che crescono al contatto con molte esperienze e altre cose del mondo. Sono cose fuori dalla scuola. Occasioni o la mancanza di occasioni. E sto guardando giovani cittadini che esplorano il loro futuro mondo da dentro e non di lontano. Giovani cittadini. Muniti di volontà e circondati da penurie e incertezze. Li seguo per quello che apprendono ed imparano oltre e fuori le mura delle scuole. O per quello che usano della scuola fuori dalle sue mura. O per le rare volte che sono ascoltati a scuola per quel che sanno del mondo. E, come avevo fatto da ragazzo quando sono entrato per la prima volta in una classe, riprendo a segnare le cose su di un taccuino. Forse è un taccuino di bordo. Molto meno di un diario. Perché raccoglie racconti frammentati e solo segmenti di pensieri.

Mi fermo coi ragazzi come capita. Ascolto e parlo meno di prima. Piuttosto annuisco, uso la mimica del viso, mi fingo distratto e disinteressato. Guardo di lato quasi; ma poi rientro nel conversare. E’ perché sono quasi sospinto a dismettere i panni dell’educatore. Ho rinunciato alla funzione educativa? Tradisco il mandato implicito che il mio ruolo mi assegna? O ho bisogno di osservare – di sospendere decisioni e azione – per poter capire le cose in questo più largo e vario paesaggio? So che spesso rinuncio al rimbrotto ai ragazzi; e anche all’appello accorato che lo accompagna: ad andare a scuola, a non fare guai, a pensare al futuro. Nel doposcuola torno a fare il maestro invece. Subito. Con una brusca virata a ritroso. Ma nell’osservazione di strada mi sento altro. E, dunque, ascolto loro più che me stesso e quel che dovrei essere. Imparo così a sentire dentro di me il tono delle loro valutazioni, le strategie inventate per tenermi lontano, il come incedono i loro dubbi, il suono delle attese, i discorsi accennati e spesso tronchi che prendono in uso per i diversi umori.

Osservo i ragazzi che vanno in giro. Hanno una vita propria, vasta, variegata. Che si muove lungo le vie. Né a scuola né a casa. Una vita di città, che è libera e condizionata ad un tempo. Molti discorsi, confusamente, paiono segnati dagli eventi che capitano loro nella città per come essa davvero è. Ma altre volte per nulla. Come se vi fosse una resilienza indomita, imbattibile, sovrana. Oppure succedono le cose e si infittiscono le reazioni. Accadono risse e litigi, abbandono dei lavori e nuove assunzioni, fidanzamenti e sfidanzamenti, qualche reato, carcerazioni, inimicizie, nuove amicalità, alleanze, giochi. E tutto si accompagna a un fittissimo parlato, ai gesti, al teatro di strada. E all’uso – per spiegare ogni passaggio, volta dopo volta - degli stereotipi che spiegano e non spiegano affatto, ripresi dalle formule trasmesse attraverso le generazioni.

 
Ma questo ribollire di eventi e parole senza fine cos’è? E’ l’insieme di tante strane tappe della crescita? Serve comunque a plasmare i pensieri? C’è creazione di convinzioni? Cammino e mi domando. La scuola e le sue rassicuranti certezze sono cose lontane mentre cammino per le vie. I ragazzini e i loro genitori, tuttavia, conservano nella mente un posto per la scuola. Ne riconoscono la necessità, il valore. E io, in fondo, sono riconosciuto perché sono della scuola. Sono una propaggine di quella necessità che cammina in giro. Strano. La scuola non riesce a funzionare per come sono tanti di questi ragazzi. Ma è rispettata. E io sono contento di questo rispetto. Perché ogni giorno continuo a pensare che se non si sanno le cose, anche quelle lontane dalla propria esperienza o forse soprattutto quelle, se non si sanno mettere insieme nei loro nessi, almeno essenziali e, dunque, se non si conoscono gli alfabeti indispensabili a farlo, ebbene non si ha autonomia in questo mondo, non si ha vera libertà, non si ha cittadinanza né futuro.

Così continuo a credere nella scuola. Anzi: in una scuola che chiede, che pretende di più. Soprattutto per chi parte con meno. Eppure ora sto fuori da scuola, avanti e indietro in un luogo di osservazione di chi, appunto, parte con meno. Imparo a capire che questo andare avanti e indietro è una situazione, in qualche modo, privilegiata. Perché mi mostra e mi dice le mille cose che entrano nella vita di questi nostri giovanissimi concittadini. Sto dinanzi a molte meraviglie. Scruto un intreccio formidabile di vite singole e di vita collettiva. E’ un movimento irregolare, caotico. E’ imprendibile secondo uno schema o un paradigma dato a monte di quel che avviene. Come mettere in relazione questa vita con gli alfabeti irrinunciabili della scuola?

A volte, qualche sera a tavola, un mio parente o amico mi chiede cosa faccio. Altre volte è un collega che incontro che mi domanda il senso delle mie giornate. Mi vergogno di non saperlo. O di saperlo solo in parte. Ho paura di sembrare un imboscato o una sorta di prestato a un generico “lavoro sociale”. Allora racconto del doposcuola. Del mio lavoro di ri-impostare alla santa lettura – al saper davvero leggere – Antonietta che non capisce o Gianni che ancora fatica a mettere d’accordo segni e suoni. Racconto del insegnare in un doposcuola aperto sulla strada che cura uno a uno: cercare sul vocabolario, leggere l’atlante, le quattro operazioni prese daccapo, la tenuta dell’ordine nei quaderni. O rispondo parlando delle ore a confrontarmi coi consigli di classe o coi docenti le mattine, sui singoli ragazzi, detti inopinatamente “casi”. Oppure racconto a parenti e amici dei laboratori di pittura che allestisco nei pomeriggi. Sono cose più certe. Ma non racconto il mio assiduo pellegrinare per le vie.

Sto cambiando lavoro o, forse, sto incontrando una qualità altra – molto meno controllata – del lavoro che facevo da maestro. Non so. Sono spinto a ritrovare nei libri categorie alle quali aggrapparmi. Vado a ritroso nel tempo e rileggo cose toccate appena in superficie molti anni prima. Un giorno, come ad un bivio del quartiere, ritrovo Dewey. Egli mi racconta cose delle quali mi ero dimenticato. Mi parla – nel suo inglese empirista e pulito - della continua transazione che ha luogo tra le persone, tra i contesti e chi cresce.

Leggo di nuovo Dewey e vedo, giorno dopo giorno, come i ragazzini si misurano con la città per come è realmente. Con le sue relazioni. Fanno ogni volta i conti con la famiglia, con i pari di età, con il variegato parentado, dentro e fuori di casa. Incontrano il lavoro e si provano. Lavoro al nero. Buono. Meno buono. Che insegna poco o molto o che non insegna affatto. Faticoso o meno. Con il mastro che è comprensivo e che guida. Con quello infame. Con i percoli del malaffare. Sì, anche con quelli. E poi osservo questi ragazzi nel loro incontro con i soldi. Per lo più guadagnati e non ottenuti dai genitori se non per alcune cose: libri, quaderni, motorini. E per le cerimonie: battesimi, prime comunioni, cresime, compleanni della maggiore età. Cose che si fanno oppure si fanno comunque. Tranne i più poveri di tutti. Si fanno. Grazie alla vasta rete dei reciproci prestiti e debiti, alle truffe, alla cambiali.

Per i ragazzi alcuni soldi si devono guadagnare, altri li si ottiene o li si chiede nelle famiglie. Non vi è però una legge ben codificata, fissa; cambia ogni volta il come, il quanto, il perché. Tra chi è socialmente escluso così come tra chi vive una vita protetta non vi è più in questo Paese un unico modo di pensare all’educare. Vi è solo un’unica televisione. I soldi per i lavori svolti valgono tanto. Questa è una costante per ciascun ragazzo. Sono un’altra cosa. Vengono a settimana, a giorno, a mese, con le mance, senza mance, straordinario, troppo poco, inatteso, atteso, deludente. Con i soldi in tasca i ragazzi si misurano con le spese. E con il dono. Innanzitutto vengono i “panni per cuollo” - il vestiario e le scarpe. Agognati e ricercati, scelti con cura, invidiati, condivisi. Poi i regali. Tra fidanzati a San Valentino, agli amici per il Santo, alla Befana ai fratellini e alle sorelline, alla mamma, al padre, qualche volta anche a quella prof. che è “troppo brava”.

Li osservo questi ragazzi e l’appunto fattuale prende il posto del commento, dell’interpretazione. Li osservo nel trattare con i diversi adulti. Lo faccio attraverso i cento e cento litigi, i conflitti, le lunghe mediazioni - pattuizioni lente o improvvise - e le rappacificazioni o le rotture. Professori, presidi, mastri, zii, padri, capuzielli di quartiere, vigili, poliziotti, assistenti sociali, psicologhe del tribunale per i minori, educatrici, medici dell’asl, negozianti, nonni, nonne, sorelle maggiori. E madri. Soprattutto madri. Molto giovani, spesso incredibilmente prossime di età ai loro figli. Stanche fino ad essere affrante. Come possono essere solo le donne giovanissime senza alcun futuro. Che tengono su la casa, il ritmo vitale, l’uomo che amano e ogni piccola cosa di ciascun giorno. Scomposte e spesso inadeguate all’enormità dei compiti. Mai protette o sostenute. Perché prive – in questo Paese barbaro - di effettivo welfare, abbandonate a sé da uno stato che non c’è e da una città che resta cieca e sorda dinanzi alle donne povere e giovani, nonostante la tanta retorica profusa. Giovani donne povere con molti più figli di noi, che sono quasi sempre uniche imperfettissime presenze per i loro figli e le loro figlie. Che non sono aiutate se non dal parlare teso e fitto con le altre donne come loro.

Vedo i ragazzi, poi, nello svago vacuo e nel tempo vuoto. O in quella cosa piena che ci ostiniamo a pensare sia vuota. Perché solo se avessimo il buon cuore di fermarci a guardare più prossimi al suo scorrere ne capiremmo gli ingredienti, i colori, le varietà di sapori. Di tutte le cose che osservo quella che più mi sorprendo a indagare e a scoprire con meraviglia è proprio il “perdere il tempo” dei ragazzi durante le giornate. Il loro “intalliarsi” – come dice il dialetto. Appuntamenti, scorribande in motorino, acquisto di bibita, nuovi appuntamenti, urli e messaggi con cellulare, giro, fermata, acquisto di venti minuti di lampada abbronzante, passaggio a casa della cugina, compiti fatti in fretta ma discorrendo anche di altro, nuovi giri e incontri. Pare un turbinio, una sorta di girandola a vuoto. Sospinta dall’energia vitale. E’ più di questo. E’ una perdita di tempo che perdita non è. C’ho messo mesi a iniziare a capirlo però. L’ho sospettato prima. Poi l’ho visto.

Cos’è questo vagabondare attraverso le ore? Perché accade a ognuno? Confesso che spesso scendo di casa e mi faccio volentieri prendere dal costante distrarsi per strada dei ragazzi, dal loro pervicace perdere le ore nel mondo. Che è proprio di ogni adolescenza ma che qui si nutre quasi direttamente del quartiere, del suo normale agitarsi. Lo osservo nei gesti apparentemente senza senso. Scendere verso il centro a prendere qualcosa. Fermarsi dalla zia di cinque anni più grande a parlare della sera precedente, venire a sapere che l’amico del fidanzato ha litigato col padrone, constatare che è vera la notizia che l’ex ragazzo può mettersi in combutta con gente che è meglio evitare, venire a sapere che forse c’è un lavoro di commessa e valutare se è il caso di lasciare la scuola prima che finisca l’anno e sperare lo stesso nella promozione. E poi vedo mano mano l’elaborazione che ne deriva, la socialità che ne viene fuori, la consapevolezza che cresce o che svanisce. Lo prendo quasi a modello per me stesso, per questa mia prolungata età di mezzo. Magari potessi io ridiventare così fluido, così aderente ai moti che ci circondano.

Sto a vedere cosa succede e non succede in questo passare da una cosa all’altra, da un discorso a un fare a un altro discorso a una pausa a un’altra pausa ancora. Avanti, indietro, a piedi, sui motorini, su per le case, giù per strada. Finalmente tutto questo mi appare come l’arte del flâneur, l’habitus mentale quasi connaturato in chi passeggia per le città, in chi gira spinto ad osservare mentre fa le cose per potere conoscere le cose e, insieme, se stesso, preso dal vivere in un luogo. Vi è una sorta di flânerie adolescenziale e di quartiere. E’accelerata e chiassosa. Perché la dei ragazzi e delle ragazze che crescono qui è veloce e piena di potenti suoni - ma priva di molte parole e di molti connettivi.

E’ anche sincopata e sconnessa. Eppure esiste. Infatti le scoperte avvengono girando, osservando, gestendo emozioni e dando luogo a gesti. Mentre la televisione non c’è, è lasciata indietro. Resta accesa nelle case, perennemente, ma è lontana da questi gesti e da queste voci che stanno esplorando nel mezzo di un quartiere che è ancora tale. No, qui la tv non è la principale dominatrice del tempo e dei passaggi. Penso questo. Forse sbaglio. E ritrovo altre letture che mi risalgono come una ruminazione: Walter Benjamin e la sua flâneurie come l’arte di chiunque sia parte delle città moderna. E’, forse, anche un po’ l’arte che devo abbracciare io, insegnante che ha un lungo tempo per strada e nel quartiere, per potere seguire questi ragazzi, indagare, interrogarmi sul come essi davvero crescono e apprendono. E’ un’arte irriducibile alle categorie statiche alle quali ognuno di noi insegnanti siamo usi riferirci: andare a scuola per poter imparare, frequentare, trarre profitto dalla frequenza, abbandonare o marinare la scuola stessa, essere o non essere dentro o fuori un confine ben segnato. Davanti a me si apre un altro modo. Che mi confonde in modo radicale, come in uno spaesamento. So che questi ragazzini, per potere avere possibilità nella vita. devono sapere le cose che si imparano a scuola. Ma so che stanno intanto imparando molto altro ancora. Che non è detto che i miei figli o quelli dei miei amici potranno imparare. Che se ne fa di questa loro flânerie che è apprendimento?

Li seguo questi ragazzi nel loro errare e scoprire, dunque. Faccio faticosamente una scheda per ognuno di loro. Non riesco a riempirla sempre. Cerco di capire il ritmo vitale, le notti e i giorni. Di segnare gli eventi. Di marcare su carta il passaggio tra giri, scuola, compiti, lavoro, famiglia, sonno, veglia. O i tempi del mangiare. O quelli – quando ci sono – del bere, delle canne… o di altro. Secondo vie non sempre scrutabili, spesso secondo mappe non note né reperibili, segrete. E’ un moto perpetuo. Mai uniforme. Una flânerie a scatti. Avviene solo al presente. Indico sì cose, atti, aspettative. Ma al presente. La predisposizione del futuro, la sospensione o il differire paiono cose improbabili, rare. E’ un movimento di corpo e di anima. Ma non ha apparentemente alcuna dimensione individuale, singolare. Non è una deambulazione solitaria. In questo non vi è nulla della flânerie. E sempre in gruppo o andante verso il gruppo che avviene il moto. E’ sì vagare o perdere tempo e scoprire ma mai da soli dinanzi alla città bensì in compagnia.

Perché questo vagare e correre innanzi e indietro per il quartiere? Scopro molte risposte tra loro intrecciate. Non una sola. Per l’elaborazione delle ferite che non si possono dire, delle ansie, della mancanza di prospettive future, delle inadeguatezze così manifeste che si sentono addosso. Perché è occasione per costruire alleanze, ricercare e mantenere reciproci sostegni tra ragazzi. O per parlare d’amore o d’amicizia. O per dare parola alle cose fatte e a quelle incontrate. O per misurarsi prima delle sfide e dei rischi. O per pensare alle rare possibilità e al come provare a tirarle dalla propria parte e osare vincerle e trarle a sé. O per fare i conti con le frustrazioni e le sconfitte. O, semplicemente, per condividere le giornate di lavoro o a spasso, i pochi denari in tasca, l’esito della partita la domenica, la nascita di un nipote, i litigi in famiglia e quelli di vicolo. O per dare senso condiviso all’avvenimento di quartiere: la vincita, le botte per strada, l’omicidio di camorra, l’arrivo del migrante nel palazzo, lo smercio della roba e le oscillazioni dei diversi prezzi, la festa con i botti, il passaggio della banda che prepara l’andata rituale a piedi al santuario della Madonna.

Gino lo incontro anno dopo anno. Come la sua percezione delle cose che fa o dice di voler fare, egli appare essere immerso solo nel presente. Non può fare altro. Sopravvive così. E’ un’arte, una vigliaccheria, una povertà che si unisce alla povertà materiale. Ed è il portato di una città che perde speranza anno dopo anno. Quando risorgerà Gino o gli altri mi parleranno anche del domani. Lo so. Ma non è questo quel tempo. E io lo accontento, assecondo con un cenno questo suo parlare del presente. E so che, anno dopo anno, sono più arrendevole dinanzi alla sua inconcludenza. Poi c’è uno scatto, ogni volta. E’un eco di qualcosa che potrebbe essere? E’ un barlume di futuro? E’ uno stereotipo come tanti altri? “Trovami na fatica” – mi dice. “Non riesco a trovarla neanche a mio figlio che è laureato” – gli rispondo, quasi distratto. Mi guarda. Un po’ è vero. Un po’ sono stanco per la mancanza di prospettive nella quale la città tutta intera è imbevuta e di cui, pure, mi sento responsabile. Gino mi offre un caffè. Lo ringrazio. Ci baciamo sulle guance.
    (da http://www.rassegna.it/)

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Postato il Mercoledì, 30 novembre 2011 ore 15:57:21 CET di Pasquale Almirante
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