Per primo è
arrivato, qualche giorno fa, il Financial Times, con un articolo sulla
popolarità crescente di cui gode la lingua cinese nelle scuole
d’occidente. Il «soft power» della Cina che si diffonde in modo
capillare in tutto il mondo, anche attraverso quegli strani ideogrammi
ai quali gli uomini d’affari non sembrano più capaci di rinunciare. Non
solo loro, ovviamente, come confermano i numeri citati ieri da
Repubblica: se «nel 2000 erano poco più di due milioni i non cinesi che
tentavano di imparare gli ideogrammi del mandarino», «oggi sono 50
milioni» e scuola e università non riescono a far fronte alla domanda.
E noi? L’ignoranza degli italiani in fatto di conoscenza delle lingue
straniere è opinione diffusa; anche se i dati di una ricerca citata
ieri da «Avvenire» sembrano smentirla. Prima di dichiarare una
inversione di rotta, però, occorre la massima cautela, perché se è vero
che l’85 percento dei ragazzi italiani tra i 17 e i 23 anni dichiarano
di sapere l’inglese, alla pari dei loro colleghi tedeschi e polacchi, e
più di spagnoli e francesi, sapere usare la lingua, cioè possedere una
«competenza comunicativa» reale ed efficace, è un altro paio di maniche.
È dello stesso avviso anche Giuseppe Bertagna, pedagogista. «Perché se
si chiede quanti italiani studiano inglese, è un conto, quanti invece
lo sanno, è un altro. Il primo rilievo, in ogni caso» dice Bertagna a
Ilsussidiario.net «è che non abbiamo mai avuto una politica nazionale
delle lingue straniere; ci siamo sempre adeguati alla cultura
dominante».
Cosa c’entra la cultura dominante, professor Bertagna?
«C’entra, perché quando il francese
era la lingua internazionale, studiavamo tutti il francese, quando
l’inglese è diventato lingua commerciale mondiale, ci siamo buttati
sull’inglese, adesso che lo spagnolo sta diventando forte perché è la
lingua maggioritaria del Bric, abbiamo preso di mira quello. Il
problema è che abbiamo sempre una politica delle lingue basata più
sull’utilità che sulla formatività delle lingue».
E dire che l’utilità non sembra un dettaglio poi così trascurabile. Non
le pare, professore?
«Certo, tutto ciò che è utile è anche
buono, ma le persone non vivono solo di utilità, ma innanzitutto di
verità. Intendo dire che se l’apprendimento della lingua
straniera, come qualsiasi altro contributo di insegnamento, non trova
un senso proprio nelle motivazioni e nell’interesse di chi apprende, ha
vita breve. La lingua straniera deve
diventare una verità esistenziale, una modalità di rapporto col mondo».
In pratica? «Quando si è davanti a parole che non si capiscono, e di
cui si capisce il significato solo dal conteso» spiega Bertagna «è come
se fosse acqua su una lastra di marmo. Non imbeve il terreno e non
fruttifica. A livello neurofisiologico, sostantivi, verbi o aggettivi
che abbiano un senso e un contenuto emotivo forte per le persone che lo
leggono, solo così “imbevono” la coscienza e il cervello».
Ma che cosa non funziona, professore? E dire che da noi si inizia
presto, ma gli stranieri sanno sempre le lingue più di noi.
«E paradossalmente, le studiano di meno! È questo il punto. La politica
dell’“utilità esterna” fa l’opposto di quello che servirebbe:
trasformare la politica di insegnamento scolastico delle lingue in una
politica dell’integrazione nazionale. È questa la strada per arrivare
all’apprendimento che chiamo esistenziale. Il nostro paese ha il più
basso tasso demografico al mondo, ora abbiamo il 10 per cento della
popolazione immigrata, ma nei prossimi anni aumenterà: avremo il 20
percento di popolazione che proviene da una cultura diversa dalla
nostra. L’approccio dev’essere non
“libresco”, ma culturale nel senso pieno del termine. Solo questo
favorisce una immedesimazione con le ragioni dell’altro».
Dunque stiamo tanto sui banchi senza combinare quello che altri fanno
in modo migliore e con minor tempo. E il colmo è che quando nei
curricula scriviamo conoscenza «scolastica» di una lingua straniera,
vuol dire che in pratica non la sappiamo usare.
«Esatto. Il problema, come spesso accade» prosegue Bertagna «è di
metodo. Perché ci sono tre modi di apprendere la lingua straniera: uno
è empirico, è lo stare in una “comunità” che parla quella lingua: penso
allo stage, al viaggio, alla tv, a internet, ai film il lingua
originale, insomma a tutto quello che può aiutare l’immersione in una
cultura nativa diversa dalla nostra. Il nostro errore è non usare
questo sistema nei primi anni di vita dei ragazzi. Quando lo si è
proposto, c’è stata la sollevazione delle categorie interessate, perché
lo può fare innanzitutto la famiglia, e la scuola solo di concerto con
la famiglia, non da sola. Il secondo modo è quello critico-riflessivo,
che ruota intorno alla grammatica scolastica tradizionale. Se imparo su
una lingua che però non esercito, è ovvio che devo supplire dentro la
scuola con il primo metodo. E l’ultimo stadio è quello esistenziale.
Qui contano i testimoni, i nativi che parlino di situazioni autentiche,
coinvolgendo la nostra narrazione biografica. Il nostro errore capitale
è avere “compattato” sulla scuola questi tre livelli, chiedendole
l’impossibile. E così facendo siamo rimasti indietro».
Da dove cominciare per invertire la tendenza?
Risponde Bertagna che «bisogna trasformare quello che è percepito dalla
scuola come una concorrenza indebita della famiglia in una alleanza
opportuna e vantaggiosa. Tutto quello che è l’esterno della scuola -
viaggi, stage, tv... - dovrebbe essere di molto incrementato e
stimolato: la scuola ricaverebbe spunti per la sua analisi
critico-riflessiva, facendo grammatica non solo formale ma
esistenziale, e potrebbe finalmente arrivare a lambire il terzo
livello, quello decisivo. Così, imparare una lingua diventerebbe
finalmente anche un fattore di identità collettiva, di educazione al
dialogo e infine di vera maturità».
(Intervista a Giuseppe Bertagna da il
Sussidiario)
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