Dopo anni di
beata innocenza, il ministro dell’Istruzione ha candidamente ammesso
nei giorni scorsi che “con i tagli non si governa”. Le parole di
Maria Stella Gelmini sono suonate tardive, perché giunte dopo un
triennio di “risparmi e razionalizzazioni” – ben otto miliardi e oltre
130 mila dipendenti della scuola pubblica mandati a spasso a partire
dal 2008 – riforme epocali che anziché rinnovare il sistema formativo e
universitario lo hanno reso più debole ed esposto alla concorrenza
della scuola privata, finanziata e agevolata, invece, da fiumi di
risorse da parte dello Stato centrale e delle Regioni.
Il ministro però, al di là delle belle intenzioni, non recede neppure
di un passo: guai a sconfessare le politiche inefficienti di questi
ultimi anni volte soltanto a prosciugare gli organici e a stravolgere i
quadri disciplinari nelle scuole secondarie superiori!
La Gelmini non può chiamarsi fuori da un progetto che lei non solo non
ha subito, ma ha ampiamente condiviso e partecipato a realizzare. E’
riuscita in appena tre anni, da quando siede sulla poltrona più
importante di Viale Trastevere, a scontentare tutti: insegnanti,
famiglie, studenti medi e universitari, comunità scientifiche e
rettori. Su una cosa la Gelmini ha però ragione, quale riforma in tempi
di crisi risulta indolore?
Questo è vero, ma forse la capacità di un governo e dei suoi ministri
si misura proprio nei momenti più difficili: anziché chiamare tutte le
forze produttive e sane che operano nel sistema scolastico e
universitario per condividere insieme un progetto in cui ciascuno,
davanti alle difficoltà del momento, si assuma le proprie
responsabilità, ha preferito le provocazioni, le illazioni sugli
insegnanti ideologizzati e poco preparati, sui bidelli sfaticati più
numerosi dei carabinieri: un corollario di insulti che non hanno
sicuramente agevolato la coesione all’interno del mondo della scuola.
Troppo tardi il ministro Gelmini si è resa conto del problema-dramma
del precariato. E se ne è resa conto solo adesso, nell’epoca del
berlusconismo decadente con un governo che scricchiola e una
maggioranza che fa acqua da tutte le parti. Eppure il fenomeno
precariato – una piaga della società – tra i giovani viene da lontano,
ma l’esecutivo era impegnato a fronteggiare ben altre situazioni.
Le cifre parlano chiaro: nel nostro Paese oltre due milioni di persone,
in maggior parte giovani, ma non solo, sono inchiodati a un impiego a
tempo determinato, interinale, a progetto, a chiamata, somministrato,
una serie di nomi e di sigle quasi infinita. Molti lavorano nel
sommerso e oltre che precari sono invisibili, senza uno straccio di
contributi per la pensione.
Il popolo dei precari è oggi un esercito che non riguarda i trentenni,
ma coinvolge chi ancora siede tra i banchi della scuola superiore,
tutti consapevoli di un mercato del lavoro avaro di opportunità, dove
le situazioni di sfruttamento incominciano a diventare frequenti e
insopportabili.
Come eredità lascerà, però, una scuola impoverita di stimoli e di
risorse, più debole nell’affrontare le sfide sociali e culturali che
verranno.
I giovani, compresi quelli che pacificamente hanno sfilato a Roma
sabato ritmando lo slogan “Save the school not bank”, hanno capito ben
prima del titolare dell’istruzione e degli altri ministri del governo
Berlusconi qual è la scommessa da affrontare per uscire da questo
deserto.
di Caterina Pes
da Pd