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Dirigenti Scolastici: Dirigenti Scolastici umiliati e mortificati nella retribuzione alla stregua di pezzenti: meminisse iuvabit

Opinioni

E dovranno spiegarsi – e farlo comprendere a chi vorrà cliccare sui siti scolastici e su quello del MIUR – il perché di un paradosso in un Paese capovolto, ma di cui essi stessi portano una buona dose di colpa.
Dovranno spiegarsi, e far comprendere, che sono titolari di ufficio, ovvero soggetti apicali in un rapporto di immedesimazione organica con l’Amministrazione; che governano istituzioni scolastiche, enti-organi funzionalmente autonomi e di rilevanza costituzionale (più che mere strutture organizzative, nel linguaggio Brunettiano) di mille ed oltre studenti e di centinaia di docenti e personale ATA, in un rapporto diretto, front-line; che rispondono, senza filtri, ad oltre duemila genitori; che si rapportano con enti locali, associazioni varie e tutto ciò che popola il variegato territorio, con una sovraesposizione sociale che non ha eguali neanche nell’alta dirigenza di vertice; che gestiscono un autonomo bilancio  e ne rispondono; che figurano ex lege datori di lavoro, perciò titolari delle relazioni sindacali, nonché direttamente responsabili, anche penalmente, per l’eventuale violazione, sebbene incolpevole, della congerie di norme afferenti alla sicurezza e alla privacy (ma pure se, per caso, è scappato di comunicare per tempo al centro per l’impiego la nomina di un supplente); che devono, infine, garantire il successo formativo di ogni alunno-studente. Mentre i colleghi (per modo di dire) amministrativi e tecnici sono del tutto privi, o quasi, di consimili profili di complessità (e di correlate responsabilità).
Però loro, dirigenti scolastici, godono (!) di una remunerazione lorda annua di poco più di cinquantamila euro, e ancor meno se hanno la iattura di appartenere alla schiera dei vincitori dell’unico e iperselettivo concorso ordinario fin qui espletato; a fronte di retribuzioni medie dei generici dirigenti amministrativi e tecnici, dello stesso datore di lavoro, di portata più che doppia. La differenza la fanno certamente la retribuzione di posizione di parte fissa e quella di parte variabile (complessivamente, in media, lo scarto è di quindicimila euro), ma soprattutto l’accessorio, quello che dovrebbe premiare il merito, cioè la retribuzione di risultato: per i dirigenti generici e fungibili venti volte superiore alla miserevole mancia elargita a pioggia a tutti gli «speciali» dirigenti delle istituzioni scolastiche che non siano incorsi in una valutazione negativa formalizzata in atti.
Ma sempre i dirigenti amministrativi (ed anche tecnici) possono (ed hanno potuto) attingere all’iperbolica cifra di sessantanovemila euro annui per il solo risultato: e in tutto fa oltre centocinquantamila euro!
Tra questi ultimi – oltre a soggetti sprovvisti di una qualifica dirigenziale – ci sono anche una ventina di dirigenti scolastici, affidatari, come esperti esterni, di incarichi dirigenziali amministrativi e tecnici, ancorché non particolarmente provvisti d’un medagliere pesante, ma di sicuro non privi di solidi ancoraggi politici.
Saranno degli eroi cui è stato affidato il destino del MIUR, o saranno stati gravati da incarichi diplomatici speciali, da incombenze onerose o complicate, oppure soggetti a rischi professionali di livello elevato?
Lo dica il signor ministro, perché noi restiamo convinti che questi dirigenti amministrativi di pari seconda fascia, baciati dalla fortuna, siano – al di là del nomen iuris – in larga parte sostanzialmente funzionari preposti a strutture organizzative semplici – una o due stanze, affiancati da quattro o cinque unità di personale, spesso in comproprietà con altri uffici interni – per il perseguimento di pochi obiettivi, ben scanditi, chiaramente predefiniti, facilmente quantificabili.
I dirigenti tecnici, poi, sono addirittura privi di una struttura materiale; attributari, volta per volta, di compiti ispettivi, di consulenza e di supporto da parte dei direttori generali. 
Evidenziare il merito, certo.
Solo che i dirigenti delle istituzioni scolastiche, reclusi nella riserva indiana per contemplare la loro lussureggiante «specificità», il merito non possono proprio, pur volendo, esibirlo. Perché non sono valutati. E non lo sono perché tutti i sindacati che dicono di rappresentarli, unitamente alle anime pie delle eteree associazioni professionali (pare che ce ne siano un paio, forse più), reputano banale l’adozione di quel modello in uso per valutare (e profumatamente remunerare) tutta la dirigenza del MIUR: dai capidipartimento, ai direttori generali, ai dirigenti di seconda fascia.
Un modello fatto di due sole schede, di cui la seconda eventuale, integrato da quattro-cinque cartelle esplicative per compilarlo. Un modello domestico, sostanzialmente un’autovalutazione, quasi sempre validata, senza modifiche, dal dirigente sovraordinato (direttamente dal ministro per i capidipartimento): e, salvo casi marinali, almeno trentamila euro annui sono garantiti.
Di tali aberrazioni tacciono rigorosamente i sindacati rappresentativi e, con aristocratico distacco, le associazioni professionali; che preferiscono baloccarsi con codici etici, altisonanti manifesti di una professione emergente, cruciale per la realizzazione dei diritti di piena cittadinanza nella società della conoscenza, e discettando di stravaganti teorie sulla leadership distribuita, senza gerarchie, democratica, trasformazionale, visionaria, evocativa, emotiva … fondata su una pelosa solidarietà che si alimenta dell’appartenenza – diretta o surrettizia – all’unico comparto degli operatori della scuola, ( «lavoratori della conoscenza»!), esistente solo in Italia.
E tuttavia clamorosamente inconferenti rispetto alla cogenza del diritto positivo, ancor più dopo la riforma recata dal d.lgs. 150/09 e dalla novella interpretativa ad opera del d.lgs. 141/11. Ma tant’é.
Sicché non stupisce la pervicace insistenza su una dirigenza scolastica «profondamente altra», che riprende teorizzazioni risalenti: di una dirigenza scolastica come forma differenziata dell’unicità della funzione docente e perciò parimenti radicantesi sulla libertà dell’arte e della scienza e sul loro libero insegnamento; contrapposta enfaticamente alla dirigenza amministrativa (ed oggi anche alla dirigenza tecnica), filiazioni del potere esecutivo ed espressione di una deteriore cultura burocratica.
E non stupisce – ma a noi continua a far rabbia – una delle inevitabili conseguenze di questo approccio distorto: che per valutare la complessità, o peculiarità, di una dirigenza «specifica», non fungibile, occorra continuare a «sperimentare» – ancora  – un «sistema», se possibile più concettuoso dei SIVADIS 1, SIVADIS 2, SIVADIS 3, puntualmente naufragati, e dell’ultimo caravanserraglio messo a punto dall’INVALSI, all’epoca commissionatogli dal ministro Fioroni: un mostruoso apparato documentale di centinaia di pagine e tabelle allegate; provvidamente, in un sussulto  di resipiscenza, mandato al macero dallo stesso muscolare medico internista di Viterbo, non rimpianto titolare pro tempore di Viale Trastevere.
Da ultimo, nelle tesi pubblicate in vista dell’imminente congresso del «più rappresentativo ed autorevole sindacato della dirigenza scolastica» si legge della proposta di un nuovo (il quinto!) sistema di valutazione: sperimentale, naturalmente!
Lo spunto è quell’improvvisata valutazione – sempre sperimentale – promossa dal ministro Gelmini, emblema di quel pensiero sbrigativo imperante nella nostra era mediatica, per premiare quello sparuto gruppo di docenti che si sono distinti per essere stati apprezzati dai colleghi, dagli studenti e dalle famiglie: una estemporanea gara di bellezza, remunerata una tantum con una mensilità lorda aggiuntiva, senza nessuna conseguenza per la carriera professionale (che nella scuola è, semplicemente, una bestemmia, vigendo una piatta e massificante cultura impiegatizia; da proletariato, sia pure della conoscenza!).
Oramai – ecco la nostra rabbia – dovrebbe esser chiaro che, decorsi quasi tre lustri dalla nascita nell’ordinamento giuridico della dirigenza scolastica e consumatisi infruttuosamente ben quattro tentativi «sperimentali», la valutazione (e la conseguente non simbolica  retribuzione di risultato) non la vuole nessuno, a cominciare da non pochi colleghi che la temono quasi come un’ordalia.
Non la vogliono tutti i sindacati storici, tradizionali e di più recente conio,  né l’Amministrazione: gli uni perché dovrebbero rappresentare e gestire posizioni differenziate e selettive, necessariamente confliggenti e potenzialmente suscettibili di sgretolare la categoria (in più i sindacati generalisti dovrebbero giustificare differenziali retributivi pari a quattro-cinque volte tra ciò che potrebbe percepire un dirigente scolastico e, poniamo, uno stimatissimo e posato professore di liceo); l’altra per ovvi motivi di risparmio: si assegnano formalmente obiettivi dirigenziali (e concrete, pesanti, responsabilità) ma li si remunerano con il corrispettivo di una brioche e un cappuccino al giorno; e senza neanche la fatica di mettere in piedi, e far funzionare, un apparato necessario per valutare dalle ottomila alle diecimila persone, atteso l’avvenuto smantellamento delle tecnostrutture del MIUR [incidentalmente INVALSI e ANSAS commissariati, con scarsissimo personale  e per lo più precario; dotazione dei dirigenti amministrativi e dei dirigenti tecnici ridotti complessivamente a meno di duecento unità. Laddove – giusto  per misurare il grado di follia del lunare dispositivo escogitato dall’INVALSI – servivano, quali valutatori di prima istanza, circa 700 dirigenti amministrativi ed altrettanti dirigenti tecnici, per seguire e supportare per tre anni, sistematicamente, gruppi di quindici dirigenti scolastici; e consentire loro, al termine dei tre anni e se positivamente valutati, di percepire l’astronomica cifra lorda di 1.500-1.700 euro, a fronte dei costi di consimile valutazione stimati attorno ai 3.000 euro annui per ogni valutato!].
Detto diversamente, ogni prospettiva di valutazione «sperimentale» è stata, e sarà, scientemente studiata per farla fallire!
Dunque, niente valutazione e niente retribuzione di risultato, con buona pace della performance, dei meriti, dei premi. Che restano argomenti per convegni, seminari, corsi di formazione e master (quei luccicanti e costosi pezzi di carta, creati dalla sbrigliata fantasia mercantilistica delle università e in convenzione con le diverse agenzie di formazione, non di rado espressione dei sindacati, specie di quelli «più autorevoli e più rappresentativi della dirigenza scolastica».
Oppure oggetto di dissertazione nelle prove scritte e orali nell’avviato nuovo concorso a dirigente scolastico, beninteso una volta superata la preselezione e sempreché si riesca ad estrarre i cento quiz «puliti», da somministrare ai candidati, da quell’autentico mondezzaio composto da cinquemila items. Cento quiz – sembra un’impresa – che siano esenti da scorrettezze, genericità, opinabilità, puro nozionismo, assoluta inconferenza o, semplicemente, che siano scritti in italiano corretto, nel rispetto della punteggiatura e dell’uniformità delle convenzioni ortografiche.
Di ciò, si sa già, non saranno chiamati a rispondere né i dirigenti dell’Amministrazione, né la – inesistente – tecnostruttura che avrebbe dovuto ripulirli e validarli, né gli anonimi esperti che li hanno confezionati.
Pensavamo che si fosse toccato il fondo con i quiz proposti nell’ultimo concorso a dirigente tecnico, in via di espletamento. Ma, evidentemente, al peggio non c’è mai un limite. Di sicuro, abbiamo un’ulteriore riprova di come l’Amministrazione e gli stessi sindacati (che non ci sembra abbiano particolarmente strillato davanti a questo sconcio, per contro impegnatisi ad avviare con solerzia corsi di preparazione per accaparrarsi future tessere, e non solo) considerino la (futura) dirigenza scolastica.   
E niente perequazione per quanto concerne le voci retributive della remunerazione di posizione fissa e di posizione variabile (mentre l’unica voce uguale è il tabellare: anche per la dirigenza scolastica 43.300 euro annui lordi su tredici mensilità).
Tutti i sindacati rappresentativi, scartata la via contenziosa, con il patrocinio in massa di ricorsi ai giudici del lavoro (ché se dovessero avere qualche successo, ciò si tradurrebbe in una loro delegittimazione), rispondono all’unisono che alla perequazione dovrà provvedere il prossimo contratto collettivo nazionale di lavoro: se e quando ci sarà, di sicuro non prima del 2015. E se ci saranno le risorse. Anzi, «in relazione all’obiettivo dell’equiparazione retributiva dei dirigenti dell’Area V con la restante dirigenza pubblica … le parti concordano di rinviare al prossimo rinnovo contrattuale [secondo un consunto copione, di rinvio in rinvio, reiterato dal 2002], nel rispetto delle autonome determinazioni del comitato di settore, l’ulteriore esame delle connesse problematiche e la definizione delle più opportune soluzioni, nella direzione del suddetto riallineamento retributivo».
E’ sottoscritto, nero su bianco, da tutti i sindacati rappresentativi, nell’art. 5, comma 2, CCNL Area quinta, secondo biennio economico 2008-2009: solenne presa per i fondelli della categoria e offesa per chi si induca a leggere queste contorte espressioni stile doroteismo puro da prima Repubblica.
Passi per i sindacati generalisti, del comparto scuola, che giustamente tutelano (dicono di tutelare) gli interessi delle centinaia di migliaia dei docenti e ATA loro iscritti e non già di poco più di tremila dirigenti scolastici distribuiti tra CGIL – CISL – UIL – SNALS, spesso con doppia o tripla tessera nella vana speranza di poter contare sulla loro benevolenza quando dovessero pestare i piedi a qualche «lavoratore», sia pure neghittoso o perdigiorno.
Ma per il «sindacato più autorevole e rappresentativo della dirigenza scolastica»? Esso avverte dell’improduttività delle fughe in avanti e delle illusorie scorciatoie (quali il cennato ricorso in massa alla via giudiziaria), pur nella giusta rivendicazione – bontà sua – della perequazione retributiva.
Scrive che, piuttosto occorrerà, da qui ai prossimi tre anni, preparare il terreno, impegnandosi la categoria a migliorare la propria preparazione, a mantenere alto il proprio orgoglio professionale e il livello di autostima, a testimoniare alla società il suo valore, ad elaborare e rispettare un codice deontologico per rendersi credibile, a non rassegnarsi al declino del proprio prestigio e del proprio ruolo sociale, a sentirsi e viversi come élite e classe dirigente del Paese; e contestualmente protesa a risolvere alcune persistenti aporie: quale dev’essere il nuovo asse culturale delle riforme dell’ultimo ventennio?, come recuperare un orizzonte di significato della scuola a partire da un lessico condiviso della sua storia e della sua cultura?, come nasce e si sviluppa la competenza ad insegnare?, come riconoscere i capaci e meritevoli?, come si declina il dilemma conoscenze-competenze?, come realizzare l’armonizzazione tra tradizione e innovazione?, quale dev’essere il fondamento epistemologico della funzione scuola?, come conciliare i diritti e i doveri del personale?, come educare al pensiero libero?, e – infine – qual è la scuola che vogliamo?
Perché solo seguendo questo paziente percorso si potrebbe convincere l’opinione pubblica dell’indispensabilità della dirigenza scolastica (una risorsa, non un costo); traducibile in pressione all’interlocutore politico, tal che al prossimo tavolo negoziale – se nel frattempo non saremo andati in default, come la Grecia – sarà quanto meno possibile procedere «in direzione del riallineamento retributivo … ».
Resta però un’impertinente domanda: quali vantaggi, prosaicamente, trarrebbero da questo comportamento virtuoso – e astrattamente condivisibile – quel 60-70% degli attuali dirigenti scolastici in servizio, che nel 2015 saranno andati in pensione e  quelle migliaia di colleghi collocati in quiescenza, almeno quelli con decorrenza successiva alla stipula del CCNL 2006-2009?
In verità quei temi, alti e nobili, dianzi compendiati, naturale terreno di elaborazione di associazioni culturali-professionali, declamati da un sindacato sono puri diversivi.
Perché un sindacato vero deve costringersi finalmente a prendere il toro per le corna, comprendendo che oggi – e con i plumbei scenari all’orizzonte – l’unica via percorribile è proprio quella giudiziaria, già battuta con successo da molti precari della scuola, sostenendo i ricorrenti a titolo personale, iscritti e non, davanti ai giudici del lavoro di prime cure e, occorrendo, in appello e poi in cassazione, sino alla corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, una volta infruttuosamente percorsi tutti i gradi di giudizio interno.
Lo hanno fatto, da ultimo e con altrettanto successo, gli ex dipendenti degli enti locali transitati nei ruoli statali del personale ATA della scuola. Si tratterebbe di distrarre una quota non preponderante dal cospicuo budget con cui si finanziano convegni simposi, corsi di aggiornamento, preparazione ai concorsi et simila.
Per i colleghi più giovani e per i vincitori del concorso a dirigente scolastico, ai nastri di partenza, permane  il problema della famigerata Area quinta. Quella della riserva indiana.
Preliminarmente alla stipula dei futuri contratti dei comparti e delle inerenti aree dirigenziali, sarà necessario ridefinire gli uni e le altre in sede di contrattazione intercompartimentale con le confederazioni sindacali maggiormente rappresentative, nei cui ambiti si collocano le associazioni di categoria. Per obbligo di legge, dagli attuali otto comparti e relative aree dirigenziali si deve scendere a non più di quattro.
Ma già si sono prefigurate tre aree dirigenziali super ingolfate (la prima ingloba ben 57 differenti datori di lavoro!), per riservare la quarta alla sola ingombrante dirigenza scolastica. Non la si chiamerà più Area quinta, della specifica dirigenza scolastica «all’interno del comparto scuola», ma area dei dirigenti della conoscenza (come piace alla CGIL) o area dei dirigenti delle autonomie funzionali (com’è stato ipotizzato dall’ANP): denominazioni tanto suggestive quanto evanescenti. Trattasi sempre di dirigenti scolastici, con qualche improbabile appendice, recintati da un cordone sanitario per preservare dal rischio infezione le dirigenze vere.  Se non è zuppa è pan bagnato.
Perché la riserva indiana, riedita sotto mentite spoglie, conviene ai sindacati generalisti per le ragioni poc’anzi cennate. Ma conviene non meno al sindacato professionale di ex solo dirigenti scolastici (avendo esso nel frattempo imbarcato le autodefinitesi ed inesistenti «Alte professionalità»: che altro non sono che docenti e direttori dei servizi generali e amministrativi, non escluso qualche assistente amministrativo e tecnico).
Difatti, se i dirigenti scolastici, anziché restare concentrati nel loro ghetto fossero collocati nell’area dei dirigenti di tutte le  amministrazioni statali (MIUR incluso), come noi pensiamo che debba essere, l’ANP perderebbe molto della sua attuale – ed alquanto  ridotta, rispetto ai dati ufficiali, fermi al 2007 – consistenza, sino a rischiare di non risultare più rappresentativa; con consequenziale svuotamento delle casseforti dei satelliti Dirscuola e Italiascuola e perdita del business della formazione, appannaggio di una ristretta oligarchia romana (con le briciole riservate alle periferie dell’impero), costretta a mantenersi, allineata e coperta nelle grazie di un sovrano assoluto da oltre venticinque anni ed in procinto di restare assiso sul trono, e per acclamazione, nei prossimi tre.
Allora e conclusivamente, per non doversi i dirigenti scolastici più vergognare, noi diciamo:

  1. Ricorsi in massa ai giudici del lavoro, che sull’abbrivo della diretta ed immediata prevalenza del diritto comunitario in tutti gli stati membri, disapplicando contratti nazionali e contrastanti norme di legge, riconoscano e sanzionino l’irragionevole discriminazione a svantaggio dei dirigenti scolastici; le cui posizioni giuridiche, funzioni e connesse responsabilità risultano, nella sostanza, comparabili e (più che) equivalenti rispetto a quelle della dirigenza amministrativa e tecnica di analoga seconda fascia: senza lasciarsi irretire da mere barriere e/o qualificazioni formali, allegabili dall’unica controparte datoriale e da insigni accademici giuslavoristi, incaricati dal «sindacato più rappresentativo ed autorevole della dirigenza scolastica» di confezionare pareri pro veritate per dissuadere la categoria ad intraprendere la via giudiziaria.
    Quali che possano essere i risultati nel breve-medio-lungo periodo, di sicuro questa è l’unica chance in possesso delle migliaia dei dirigenti scolastici ancora in servizio o da poco pensionati.
    E sarebbero – i ricorsi – uno  strumento per tenere sotto costante pressione il decisore politico, l’opinione pubblica e gli stessi sindacati rappresentativi, obbligati a darsi (più di) una mossa in prospettiva della predisposizione della prossima – ancorché non imminente – tornata contrattuale.
  2. Nella predetta prospettiva, senza indugi e tergiversazioni, pretendere preliminarmente la collocazione nell’area della dirigenza delle amministrazioni statali. A questo punto non ci sarebbero più appigli tecnici (diverso contratto …) per giustificare la cospicua sperequazione della retribuzione di posizione di parte fissa (a cifre attuali sono novemila euro annui) ed anche di parte variabile. E, soprattutto, diverrebbe giuridicamente esigibile la retribuzione di risultato, elemento strutturale e indefettibile, in assenza del quale non vi è dirigenza.
  3. Ma da subito, conseguenzialmente, si deve pretendere una valutazione analoga (non un «sistema» di) a quella in uso per la dirigenza amministrativa e tecnica, con gli adattamenti – ad un tempo essenziali ma marginali – per focalizzarla su pochi, basilari obiettivi strategici inerenti all’organizzazione dell’insegnamento (la prestazione fondamentale di ogni istituzione scolastica), declinata su indicatori quantitativi/descrittivi, ritenuti astrattamente idonei a evidenziare i suoi profili di «qualità»; nel mentre tutti gli altri eterogenei elementi «di contorno», di valenza strumentale, riuscirebbero coperti dalla residuale valutazione del comportamento organizzativo, che può ritenersi riassunto e operazionalizzato nella declaratoria figurante nell’art. 25 del d.lgs. 165/01 (quella della supposta «specificità» della dirigenza scolastica), senza inutili e confusive proliferazioni lessicali.
    Una sola scheda SOR (Scheda di programmazione degli obiettivi e dei risultati, nonché del residuale comportamento organizzativo), eventualmente integrabile da una seconda denominata EDE (Elementi di difficoltà evidenziati): il tutto quantificabile in un punteggio, senza tanti – ed irritanti – giri di parole.
    Come per la dirigenza amministrativa e per la dirigenza tecnica.                                                                                                                                                                   

Stiamo vaneggiando?

-Francesco G. Nuzzaci-.









Postato il Venerdì, 30 settembre 2011 ore 13:07:00 CEST di Salvatore Indelicato
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