Agli
inizi della mia carriera di insegnante di scuola
superiore, non era ancora nata l’autonomia
scolastica, né inventato il Dirigente scolastico; il preside si
chiamava semplicemente signor Preside, era il capo
d’Istituto e dava le qualifiche alla fine di ogni anno scolastico. Il
mantra sessantottino, sbolliti gli iniziali eroici furori, stava per
acquietarsi nel rosario laico dei decreti delegati, et amen!
Così, fino quasi alla fine degli anni novanta. I.D.E.I e PON e POF,
crediti e debiti, e tant’altre novità terminologiche d’importazione,
sarebbero venuti molto tempo dopo a movimentare la routinaria vita
degli
insegnanti. Ma si era ormai nel nuovo nel nuovo millennio!
Tra i ricordi, solo il più emozionante e il più significativo, per
me, della mutazione dei tempi attuali: quello del mio
primo approccio col capo d’Istituto di un liceo classico,
dove ero stato chiamato, fresco di nomina annuale. Metà d’
ottobre. Mi reco a scuola con grande anticipo, e col cuore in
subbuglio.
Un attempato bidello claudicante, con sbadigliante
cortesia, intuisce, a vedermi , il motivo della mia presenza, e
mi indica a gesti la strada dritta che porta alla Presidenza . Busso.
Entro con timore e tremore: la
stanza è ampia e luminosa. In fondo, al centro della bianca parete, uno
smilzo crocifisso di legno campeggia stanco, vegliato
ai lati, da due foto istituzionali ingrandite in bianco e
nero: Paolo VI, e Saragat, di fresco presidente della
repubblica. In un angolo, a destra, accanto ad un armadietto
stracolmo di libri, di vocabolari e di scartoffie varie, un
tricolore sbiadito sonnecchia, aspettando giornate di
gloria. La mia sbirciata ignora il suo vilipendio futuro e dice solo
Sei bella ,o mia Patria, o mia bandiera. Un attimo di
riflessione sospeso nel Nulla; poi un forte e deciso :
Avanti, prego!, e come d’incanto, alta, non bella ma di gentile
aspetto, e autorevole, dietro una lucida e poderosa
scrivania color finto-noce, s’incarnò maestosa, dalla cintola in su, la
figura del signor preside : fronte alta e spaziosa, da
intellettuale, uomo navigato , esperto “ de li vizi umani e del
valore”, capelli brizzolati, occhiali spessi sulla punta del naso, due
fessure gli occhi, che sapevano di” sudate carte” di latino e di greco,
e di versi d’amore e di gloria, e di superiore umorismo, più che di
leggi, di comma e di cervellotici codicilli; sobrio vestito
grigio- scuro, rigorosamente giacca e cravatta. Poi, un accenno
di sorriso bonario, ma non da bonaccione, una specie di svirgolata di
labbra, uno sguardo comprensivo e profondo, una sincera e
calorosa stretta di mano mi dissero “Professore,
la
scuola è per chi la ama, senza amore nessun sapere si trasmette.
Ti attende un duro impegno, e per giunta mal retribuito; educare i
giovani non è facile, costa fatica, ma gratifica; non ti
preoccupare, ce la farai se porti fiducia serietà impegno e umiltà nel
tuo lavoro, come ce l’ho fatta io; nessuno
nasce imparato, ognuno ha da apprendere da tutti. Il metodo? Io
credo che chi sa lo trova dentro di sé quello adatto a
trasmettere agli altri il proprio sapere; non pensare al programma,
educa su misura, pensando alla centralità dell’allievo, alla formazione
della sua personalità ,senza sciupare i talenti di alcuno; la cultura è
tutto ciò che rimane dopo aver dimenticato tutto, insegnare è una
donazione, atto di gioia, di onestà intellettuale , un
piacere dello spirito, un dono d’amore e di cultura e un
accrescimento reciproco. Ho fiducia in te.” Poi, accomiatandosi ,
m’aprì la porta e il suo sguardo da miope si tradusse “Si ricordi
, professore, non è una programmazione a generare cultura, ma è la
cultura a permettere una programmazione, non lo dimentichi, poiché è
solo come uomo di cultura che potrà essere una “personalità” dotata di
prestigio e di autorevolezza e di credibile ascendenza. Le
auguro buon lavoro e una felice carriera.”
Altro non ricordo, di quel mio primo giorno, e del mio
primo capo d’istituto, se non che quando uscii da quella
Presidenza rutilavano ancora dentro il mio cervello solo
quello sguardo e quella stretta di mano e quegli occhi da
miope che nell’accoglienza avevano significato per me più
di tante parole , e di tanti pretestuosi e saccenti discorsi e
consigli di pedagogia e di didattica e di docimologia.. Ma
questo accadeva nel secolo scorso!
Nuccio Palumbo
antoninopal@katamail.com