Scuola? Voglio
parlare dei ponti e di quello che c’è da fare. Sono ormai anni che
scriviamo dello sfascio della scuola statale: credo che gli ultimi
responsabili di questo sfacelo stiano per andar via, i volti noti
almeno, Berlusconi, la Gelmini, per cui potremmo preparar le cetre per
suonare l’inno alla gioia, ma in realtà a questi volti ignoti altri
volti nascosti potrebbero succedere. Ulteriori artefici di politiche
scolastiche sbagliate perché inefficaci, inefficienti, inconcludenti.
Politiche messe in campo senza criterio da chi ragiona seguendo le
ragioni non dell’istruzione ma di altri ambiti: dell’economia,
dell’emergenza, della politica astratta,del comparto welfare, in una
parola dell’utile. E invece bisognerebbe studiare una nuova, quanto più
necessaria, riforma della scuola, che preveda piuttosto una concezione
virtuosa dell’inutilità, per rendere indispensabile ciò che non è
utile.
Ecco la differenza principale tra chi «è istruito» e chi non lo è. Non
basta più respingere le azioni sbagliate di un governo, che poi, lo si
dimentica spesso, sono frutto di una deriva sociale, culturale e
storica in atto e non viceversa. Serve un alternativa che ribalti
tutto. Una proposta di politica scolastica che rifletta una proposta di
idea di paese, di cittadino, come di politica, non tanto di testo
scolastico o di valutazioni comparate di alunni. Ecco perché parlavo di
ponti: la disgregazione del sistema scuola dipende in larghissima
misura dalla distruzione dei ponti e dei legami tra paese reale,
cittadino singolo e politica. Ciascuno va per la sua via, confusa tra
l’altro, perché, come la proteina del Dna, sono invece vie che non si
definiscono l’una senza l’altra. Torniamo alla scuola, all’utile e
all’inutile. È la prima domanda che mi fanno i ragazzi: professoressa,
ma a che serve? Io insegno arte. A che servono l’arte, la musica, la
poesia, a che serve conoscerle? E io rispondo sempre allo stesso modo:
perché ti sei messo questa maglietta oggi? «Perché mi piace». «Che vuol
dire?». Rimane muto e i miei tre anni successivi in quella classe
serviranno a fargli capire cosa e perché «gli piace». È la misura e la
necessità virtuosa di quell’ inutile reso necessario che fa la
differenza tra persona e persona, tra politica e politica e tra paese e
paese. Tra istruzione e istruzione. Tra vivi e morti, tra servi e
padroni. La misura tra ogni inciviltà e la civiltà si definisce nel non
necessario che trasferiamo noi docenti nelle classi di anno in anno e
di alunno in alunno. Cerchiamo di trasferire quante più parole
possibili e numeri e visioni per definirlo meglio quel non necessario.
Ma ce lo stanno rendendo sempre più difficile e impossibile. Non stiamo
dietro ai tempi, non riconosciamo i diversi linguaggi tra le
generazioni, non ci aggiornano in tal senso. Non sto parlando di
astrazioni ma di ricadute reali. L’importanza di quel non necessario è
scaduta a tal punto nell’opinione corrente da renderla un dato tecnico,
una quantità, un servizio offerto. Quando la scuola non è un servizio,
non è quel luogo di badantato che hanno ridotto a essere, ma è la
definizione dell’identità dei singoli, come della collettività di un
popolo. Scrivere, leggere e far di conto. Insegnarlo bene: questo
ripeto che dovrebbe essere il nodo di ogni riforma. Metterci nelle
condizioni di insegnare bene e meglio. Per riuscirci lo deve volere un
paese intero. Per riuscirci si devono riconnettere le reti interrotte
tra politica, scuola e cittadino ciascuna nelle proprie competenze
certificate, non più delegando i rispettivi compiti alle incompetenze.
Come mai i ragazzi finlandesi risultano primi in tutti i test
internazionali di comprensione dei testi e di matematica e i ragazzi
italiani sempre più ultimi? Perché la vera sostanza del modello
finlandese non è la quantità: la scuola finlandese è sempre aperta
perché sfuma in attività sociali, perché è il presupposto della
socialità di quel popolo non dell’ostilità, come accade da noi. Il
miracolo finlandese nasce dall’aver condiviso un significato di scuola
come luogo cardine del sociale condiviso e tutto il resto: le politiche
scolastiche e quelle economiche connesse sono venute di conseguenza.
Perché è il contesto sociale e culturale che fa la scuola: non il
singolo insegnante. Alzi la mano l’adulto italiano che ritenga la
scuola «scuola di vita» e che non emetta il suo solito «giudizio
perfetto» sul «come e perché insegnano male i professori». In Italia
l'asse formativo di base negli ultimi anni non è stata la formazione
del cittadino e la sua educazione ma è diventato l'utilità. E la colpa
di ciò è collettiva, oltre che politica. E siccome le cose che si
studiano a scuola «non sono utili a breve termine» , ma formative nel
lungo termine, la scuola rimane molto, ma molto indietro nelle priorità
dei governi. Sbagliando tutto. La cultura ha tempi lunghi altrimenti
non sarebbe il patrimonio delle idee. Dobbiamo ricostruire i ponti
distrutti, in un proposito collettivo. Un progetto l’avremmo, basta
volerlo. (da l'Unità di Mila Spicola)
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