In questi giorni,
con l’approssimarsi dell’avvio dell’anno scolastico, non mancano sui
giornali i servizi sulle anno se e sempre più gravi problematiche del
mondo della scuola. Quando si parla di disagio dei docenti, in genere
ci si riferisce al vasto universo del precariato: professori e maestri
a tutti gli effetti, che magari da molti anni aspettano il contratto a
tempo in determinato. Questa è una vergogna tutta italiana, alla quale
bisogna porre urgente rimedio. Tuttavia c’è anche un altro disagio,
magari meno eclatante ma altrettanto forte e motivato, quello degli
stessi insegnanti di ruolo, considerati a torto dei privilegiati. Voglio raccontarvi la storia di Carmine.
Quarant’anni, laurea in Lettere a pieni voti, dottorato di ricerca in
Italianistica, contratti di docenza in prestigiosi atenei, numerose
pubblicazioni presso importanti editori. Carmine è entrato in ruolo nel
2005 e in questi anni ha insegnato con soddisfazione Latino e Italiano
(la materia, questa, in cui si è specializzato ben oltre il titolo
richiesto per l’accesso alla docenza nella scuola secondaria), nel
triennio di un liceo scientifico. Quest’anno
l’amara sorpresa: avendo la riforma Gelmini reso il latino facoltativo
al liceo scientifico, in molte scuole d’Italia si stanno perdendo
cattedre. In ogni istituto, dunque, anche tra i docenti di
ruolo vengono individuati dei «perdenti posto». Essendo assunti a
tempo indeterminato, il Ministero della Pubblica Istruzione deve farli
lavorare, ma sul dove e sul come non ci sono certezze, anzi c’è
un’amplissima discrezionalità dell’Amministrazione.
Come si individua l’insegnante perdente
posto? Sulla base delle graduatorie interne, basate su un punteggio
rigido.
Conferiscono specifico punteggio l’anzianità di servizio
(e sin qui va bene), ma anche il matrimonio (anche da solo, in assenza
di prole: retaggio della tassa sul celibato di mussoliniana memoria?),
i figli, le malattie.
Carmine è relativamente giovane, non è
sposato, non ha figli e per sua fortuna ha una salute abbastanza buona.
A nulla valgono i suoi titoli culturali e scientifici. Il verdetto è
secco: perdente posto.
Così quest’anno
si troverà a insegnare Storia e Geografia (che c’entrano con la
Letteratura italiana?) per 10 ore in un liceo scientifico, per 5 in un
liceo linguistico e per 3 in un liceo delle scienze sociali. Il tutto
in barba alle competenze maturate, alla continuità didattica, in una
parola alla qualità dell’insegnamento.
Il numero magico è 18:
18 ore settimanali di insegnamento, da raggiungere a costo di
complicati calcoli. In nome del risparmio i docenti vengono
«riconvertiti» da un anno all’altro senza alcun riguardo per quello che
sanno insegnare e per il loro bagaglio di cultura ed esperienza.
L’insegnante diventa così un numero, un ingranaggio di un apparato
burocratico sordo e cieco.
E hanno l’ardire di chiamarla riforma (di
Roberto Carnero da l'Unità)
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