Raccolgo
l’invito di qualche commentatore a questo giornale sull’evidenziazione della falsità delle
affermazioni sul Sud che “ruba” al Nord. Ovviamente parlo della
Sicilia, che conosco meglio; ad altri il compito di fare analisi simili
su altre regioni meridionali.
Diciamo
chiaramente che di questo luogo comune della “Sicilia” che vive alle
spalle dei Lombardi non se ne può proprio più. Cerchiamo
dunque di fare quattro conti.
Diciamo subito che i conti ufficiali di cui disponiamo sono
insufficienti per fare un vero calcolo. Sia i conti del Ministero dello
Sviluppo Economico sia quelli della Ragioneria generale dello Stato
scontano infatti un gravissimo vizio metodologico che, ovviamente,
conviene politicamente alle parti più forti del Paese: le uscite sono
distribuite secondo criteri di competenza territoriale tutto sommato
accettabili, le entrate invece – e questo è il trucco – sono ripartite
in base alla sede legale del contribuente o del sostituto d’imposta.
Sia nella fiscalità, sia nella “parafiscalità” (contributi sociali)
quello che conta è il luogo in cui amministrativamente sono versate
tasse e contributi, non il luogo in cui matura il presupposto della
tassazione o della contribuzione.
Beninteso la Sicilia ricchissima non è, se non potenzialmente. E come
potrebbe esserlo dopo 150 anni di feroce sfruttamento coloniale e di
parassitismo assistenziale dei suoi ceti dirigenti? Ma quel poco che ha
non le viene nemmeno riconosciuto. Figura, ad esempio, che si
raccolgano solo 10 miliardi di contributi sociali a fronte di circa 18
miliardi tra pensioni ed altre prestazioni sociali. Non si preoccupi
nessuno. In nessuna regione i contributi raccolti pareggiano le
prestazioni sociali, le quali restano così sempre in parte a carico
della fiscalità generale. Ma al Sud questa forbice appare molto più
grande di quanto non sia in realtà perché i contributi di enti pubblici
e imprese che hanno altrove la loro sede, altrove sono versati. Chissà
che, facendo bene anche questi conti, non si scopra che dalle nostre
parti in realtà non c’è nessuno sbilancio. Ma, lasciamo oggi da parte
la “parafiscalità”; concentriamoci sulla finanza statale.
Qui disponiamo di uno studio della Ragioneria generale dello Stato che
“regionalizza” le spese pubbliche, ma – chissà perché – non anche
le entrate. Concentriamoci solo sulla parte corrente che è quella che
conta di gran lunga piú di quella in conto capitale anche perché è
l’unica ad avere carattere strutturale.
Da questo studio si legge che in Sicilia lo stato spenderebbe (dati
2009) circa 22 miliardi e 345 milioni l’anno. Andando a vedere un po’
piú a fondo dietro questo dato, si scopre che la Ragioneria dello Stato
conta come “spese dello Stato” i tributi che la Regione incamera
direttamente ai sensi del DPR 1074 del 1965, il quale attua (maluccio)
quanto dispone l’art. 36 dello Statuto. Detto facile facile, lo Stato
“fa finta” che i nostri tributi, riscossi in Sicilia direttamente dalla
Regione, siano invece riscossi dallo Stato, e poi “graziosamente”
concessi alla Regione. Un falso in bilancio dunque.
Nella realtà, depurando le spese dello Stato in Sicilia da questi
“falsi” trasferimenti, si scopre che la vera spesa dello Stato in
Sicilia ammonta a soli 13 miliardi e mezzo di euro l’anno. Di questa,
una parte con la Sicilia non c’entra nulla e viene imputata a noi per
motivi puramente contabili. Che senso ha, ad esempio, contare 450
milioni di “imposte sulla produzione” che lo Stato paga … a se
stesso? Oppure contare circa 300 milioni che lo Stato trasmette ad
altre amministrazioni centrali (e quindi parastatali)? Queste per me
sono “Partite di giro”. Poi ci sono le “imputazioni” dei costi
comuni, che materialmente si sostengono a Roma, ma che, per competenza,
sono “girate” pro quota alla Sicilia. La voce piú importante è quella
degli “interessi passivi” sul debito pubblico italiano: stiamo parlando
di 462 mila euro circa imputati per competenza alla Sicilia. Cioè: lo
Stato ha fatto i debiti e poi contabilmente ripartisce per regione gli
interessi che ne derivano. Bene. Ma perché non ripartisce per
competenza anche le entrate? Mistero.
Se, ipotesi di scuola, la Sicilia fosse indipendente, queste partite di
giro se le pagherebbe da solo lo Stato italiano. E quindi vanno
detratte.
Insomma, effettivamente lo Stato non spende in Sicilia piú di 12
miliardi.
E quanto incassa? Qui – come detto – il dato regionalizzato non c’è.
Come riscossione si hanno circa 13 miliardi e 246 milioni di imposte,
circa dieci di accise, il resto giochi e scommesse e altri tributi
minori, molti dei quali illegittimamente incamerati dallo Stato.
Ovviamente non si conta il gettito vero, cioè quello derivante dal
“maturato” in Sicilia e riscosso altrove. Su questo, le piú
prudenti stime parlando di mezzo miliardo di euro, ma in realtà è
impossibile che si tratti di meno di 5 miliardi di euro l’anno che
silenziosamente, tra IRPEF, IRES e IVA, senza contare minori tributi,
prendono ogni anno la via del Continente.
Ma – facciamo i tonti – non contiamoli. Fermiamoci ai 13 miliardi e
passa di “incassato”. Questo gettito, come dimostra la matematica,
copre già da sé ogni spesa dello Stato in Sicilia e in piú è come se
pagassimo un “ticket” per essere considerati italiani e poterci fare
sputare in faccia da tutti ogni giorno.
E interessante però vedere questi 12 miliardi lo Stato come li
spende in Sicilia.
Per natura della spesa abbiamo, grosso modo: 5 miliardi e 200 milioni
di stipendi a statali, molti dei quali docenti; 1 miliardo e qualcosa
di consumi, 2 miliardi e 750 milioni di trasferimenti alla Regione (di
cui piú di 2 miliardi di contributo alla spesa sanitaria), 1 miliardo e
700 milioni a comuni e province, mezzo miliardo abbondante di altri
trasferimenti a enti pubblici, mezzo miliardo scarso ciascuno di
trasferimenti a famiglie e imprese, il resto, in siciliano,
“minuzzaglia”. Tutto qua.
Per destinazione invece troviamo circa 4 miliardi e mezzo di
trasferimenti a Regione ed enti locali, 1 miliardo per la Difesa, 700
milioni per la Giustizia, 800 milioni per la Polizia, 3 miliardi e 400
milioni per la scuola, 600 milioni per l’università, 300 milioni per
diritti sociali, politiche sociali e famiglia, 180 milioni per
l’immigrazione e l’accoglienza, il resto, ancora una volta,
“minuzzaglia”.
Insomma il conto è presto fatto. Prendendoci anche le accise
potremmo fare a meno dello Stato, e anzi migliorare scuola, sanità e
università.
Con l’art. 37 interamente applicato potremmo caricarci anche la nostra
previdenza, migliorando persino le pensioni, e “donando” allo Stato un
tributo onnicomprensivo di “un miliardo e mezzo” per la difesa e
pochissime altre prerogative sovrane. Insomma potremmo rinunciare ad
ogni perequazione e cavarcela benissimo da soli, altro che mantenuti!
E comunque questi sono conti a “bocce ferme”. In realtà, a Statuto
integralmente applicato, la Regione disporrebbe pienamente della leva
fiscale e, con questa, attiverebbe tutta quella parte della popolazione
oggi inoperosa. Sempre come ipotesi di scuola, nel caso di piena
indipendenza e uscita dall’unione monetaria europea (ma non dall’unione
doganale o dalla libertà di circolazione di capitali, beni,
servizi e persone, insomma con un rapporto associativo come quello
della Norvegia), la Sicilia vedrebbe aumentare la propria
competitività, attrarre investimenti, ridurre drasticamente la
disoccupazione, aumentare il gettito pubblico e, per mezzo di esso, la
qualità e quantità di servizi pubblici.
E invece… non ci fanno usare neanche quel surrogato che è lo Statuto
speciale. E in piú si permettono di insultarci, purtroppo con
l’appoggio di una minoranza di siciliani interessati, o complessati, o
semplicemente “abituati” a queste condizioni e paurose del nuovo,
qualunque cosa esso sia. Che dobbiamo fare? Ai lettori le proposte.
(da http://www.siciliainformazioni.com)
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